40 ANNI DA ALIENO

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Chissà perché oggi, compiendo 40 anni, mi torna alla mente Seneca. Epistulae morales ad Lucilium: “Modo amisisse te videor; quid enim non modo est, si recorderis?” (“Mi sembra di averti lasciato poco fa; infatti cosa non è “poco fa”, se lo ricordi?”). Nel ricordo il tempo perde facilmente spessore, e tutto si confonde: un attimo o 10 anni… quanto è passato, da quel gelato passeggiando sul mare? Quanto da quella promessa di matrimonio tradita? Quanto da quel primo giorno di scuola? E come dimenticarlo, del resto, per uno che già era timidissimo di suo, e non aveva nemmeno frequentato l’asilo? Che colpo! In quella scuola di Milano – un palazzone giallo che sta ancora lì – con la cartella sulle spalle e il bidello che mi accompagna dove qualcuno (forse la preside) sta tenendo un discorso: sono lì, in piedi dietro a tutti, ed è come se non fosse possibile individuare uno spazio attraverso il quale inserirmi in quel gruppo. Ci sono loro, lì, ammassati, e c’è il piccolo Carlo, dietro, separato. Forse un presagio. Fatto sta che da allora in poi, complici i continui cambiamenti di lavoro del padre, e, quindi, di città, quel piccolo Carlo dovette “farsi le ossa” confrontandosi con la sua timidezza e compagni di scuola sempre nuovi, mentalità differenti, etc.

L’infanzia a Milano 3: luogo fuori dal comune, per ricchi o aspiranti tali. Un’élite, per chi considera i soldi un metro di giudizio fondamentale. Un covo di snob, per molti altri. Un posto dove un bambino può andare a piedi da casa a scuola, ma a piedi non poteva uscire da lì. Una sorta di circolo (vizioso).

Sembra solo poco fa, in terza elementare, scendendo le scale, il biglietto d’amore con sopra appiccicati i cuoricini autoadesivi, infilato nel sacchetto di carta che la bambina amata portava all’uscita da scuola. E tutte le ansie e il dispiacere per quel sentimento non corrisposto, ma con un destino imperscrutabile e circolare e ironico. Ci sono percorsi che vanno dritti, alcuni che prendono svolte decise, e altri che girano in tondo e tornano al punto di partenza: quel bambino di 8 anni non sapeva. E come avrebbe potuto?

Finite le elementari, si riparte… stavolta per le Marche: un posto chiamato Fano. “E che posto è?”, mi domandavo, mentre preparavo le mie poche cose per il nuovo trasloco, e intanto meditavo su come non allontanarmi da quell’amore non corrisposto ma neppure dimenticato, né tantomeno sopito.

Fano. Il mare. Nuovi compagni. Nuove imprese, per un undicenne timido, appassionato di astronomia, Kenshiro, dinosauri, Masters e Titanic. La prima mountain bike, e quei pomeriggi di primavera che sembravano non finire mai per una città così piccola da girarsi persino in bicicletta in una mezz’ora: da Via Battisti giù dritto fino al mare, e poi verso nord… i cantieri navali… gli hotel… indietro verso il centro, un breve giro e poi verso casa.

Come scorre tutto lentamente, quando si è bambini. Il tempo sembra non passare mai, e tutto sembra non mutare mai… i genitori che sono sempre “i grandi”, infinite cose da scoprire, giochi da fare, e lo studio che ti accompagna sempre e comunque.

Ecco, quell’istante è svanito e Fano è ormai passata… soltanto un anno di vita… frazioni di secondo nella memoria. No, nemmeno lì sarei invecchiato. Ci sarei tornato, di quando in quando, a ricordare e ritrovare dei luoghi familiari, e a mostrarli alla persona amata.

Di nuovo Milano 3. Ma stavolta in un battito di ciglia: nemmeno il tempo di finire la seconda media, ed ecco una nuova meta. Questa, sì, segnata dal destino: Pescara. Sette anni scarsi, che hanno rappresentato il periodo più bello di tutta la vita. L’unico luogo e tempo a cui tornare costantemente con la mente: lì tutto, ma proprio tutto, aveva un altro sapore… e colore. Un colore diverso dalla grigia Milano. Certo, difficile sentirsi pescarese per un milanese che a 13 anni era già ateo e a 14 parlava di karma e reincarnazione ai compagni di scuola.

Forse l’unico posto in cui, per qualche tempo almeno, quel ragazzino molto taciturno e introverso si sia sentito a casa propria e parte di un gruppo. Sì, proprio come scrisse in quella dedica alla sua classe che alla cena di fine anno del V ginnasio la prof. avrebbe letto davanti a tutti, aggiungendo “Non ha parlato per un anno, però…”.

Non che fosse tutto rose e fiori: altra città, altro amore non corrisposto per cui struggersi fino all’ultimo anno di liceo, una famiglia a tratti incomprensibile, che andò popolandosi di felini in modo esponenziale e repentino (fino ad arrivare a 13, più un cane), e il piacere di stare con pochissime persone, sentendocisi veramente legato, ma allo stesso tempo il rifiuto di “andare in gruppo” o in discoteca, e simili. Anche lì, tanti sabati pomeriggio solitari. Tante domeniche in bicicletta solitarie. Nell’attesa di un amore che sarebbe stato “per sempre”, e di un futuro carico di sogni e aspettative. Però, devo dirvelo, per un milanese, naturalizzato milanotreese, anche una corsa sulla spiaggia la domenica mattina o una passeggiata solitaria sul lungomare pescarese erano un bene assoluto e incalcolabile. Come quei pomeriggi con il migliore amico, girando con il suo motorino (a me non lo compravano), che spesso si doveva sorbire infiniti sfoghi sulle mie ansie e pene d’amore e aiutarmi a comprendere ogni minimo evento, che andava attentamente analizzato per comprendere la percentuale di probabilità che “lei” cedesse al corteggiamento.

Poi, sul più “bello”, a 17 anni, la morte improvvisa della ragazza di mio fratello. Morte. Un concetto che già allora consideravo relativo e incompreso. Almeno la mia mente. Ma al cuore, vaglielo a spiegare che quella persona che per 4 anni avevi visto in casa tua quasi ogni giorno, e che pensavi sarebbe stata la moglie di tuo fratello, è semplicemente sparita da qualsiasi presente o futuro. Che sabato sera era lì, a giocare giochi di società al Balena Bianca, con te, tuo fratello, e sua sorella. E a mezzogiorno di lunedì una telefonata da Pescara avvisa tuo fratello, appena arrivato a Milano per fare il suo primo esame universitario, che “ha avuto un incidente”.

Sembra poco fa, e invece sono trascorsi 23 anni, da quel lunedì 3 luglio 1995. Un giorno che sarebbe rimasto impresso per molto tempo nella mia mente come il più drammatico di sempre.

Quello del 1995 fu anche il primo di una serie non trascurabile di “natali peggiori”. Da solo, a cercare di consolare un fratello maggiore disperato, sorvolando sull’ennesimo trasferimento (stavolta a Bassano del Grappa, dalla nonna) e sull’angoscia che ogni singolo giorno trascorso lì rappresentava per il Carlo adolescente.

Fra i molti posti in cui ho vissuto o che ho visitato abbastanza a lungo, decisamente Bassano fu la più grande delusione: lì mi sentivo fuori posto a ogni livello e in tutti i sensi.

Sembra poco fa, la decisione di “scappare” via. Tornare a Pescara, e riprovare a starci, costi quel che costi. Un viaggio organizzato in segreto da mia nonna, dalla quale vivevo, e da chiunque altro. In un’epoca senza Internet e senza avere il cellulare. Quando non potevi chiedere a Google di tracciarti la strada da Bassano a Pescara, né di spiegarti quali treni prendere e quali no. La decisione, drastica ma inevitabile, la fuga prima dell’alba con una valigia piena della mia vita, televisore compreso (e non intendo dire quelli piatti LCD, ma quelli a tubo catodico).

L’alieno aveva lasciato Bassano, per tornare nella “sua” Pescara. Sì, perché quando arrivi a sporgerti dalla finestra desiderando solo morire, e pensi che se succedesse saresti solo un peso in meno per gli altri… è da lì che puoi trovare la forza di provocare la sorte, e scombussolarle i piani. Quando sai di non avere niente da perdere, ma tutto da guadagnare, ci vuol poco a investire.

Una scommessa andata bene. Una delle poche.

L’ultimo anno e mezzo di liceo, a Pescara, fu il Rinascimento per quel Carlo, che amò il doppio tutto ciò che già prima aveva apprezzato, e non si lasciò sfuggire nulla di tutto ciò che c’era e che per un po’ aveva perduto. Trovò pure l’amore, fidanzandosi per la prima volta.

Come sempre fuori tempo e fuori moda, scelse di palesarsi inviando un mazzo di rose a quella che sarebbe stata la sua ragazza di lì a qualche tempo. 13, perché, gli spiegò la fioraia, non si mandano mai in numero pari. Forse un mero espediente, o una leggenda metropolitana per spillare qualche lira in più, ma chi era lui per contraddirla?

A quel tempo Carlo era “di destra”, e, a parte credere nella reincarnazione anziché alle religioni, era un ragazzo che amava gli animali (anche se se li mangiava), le moto, le auto, e che guardava la formula uno e un sacco di altre cose in televisione. Ovviamente Star Trek prima di tutto.

L’unica cosa a distinguerlo era il desiderio innato di “fare la differenza”. Non studiare, come molti, ciò che ha studiato un genitore, e non seguire nulla pedissequamente, ma trovare il proprio senso nel mondo, e fare la differenza. In qualsiasi modo.

Sembra ieri che mi iscrissi ai test di ammissione del Politecnico, e, poi, alla facoltà di ingegneria aerospaziale: il primo uomo su Marte era l’ambizione. Ma la matematica non mi aveva messo nella lista degli invitati al suo party in cui elargiva campioni gratuiti, e così il sogno s’infranse contro le barriere della vita. Proprio come quell’amore delle elementari, o quello delle superiori. Per un po’ tutto sembrò privo di senso, e un percorso già prefissato nella mia mente dovette essere sostituito da un nuovo programma: non più “Carlo l’ingegnere”, né tantomeno “Carlo l’astronauta”. Fu dura, ma dentro portavo la consapevolezza che ogni evento ha una ragione e un senso, e in cuor mio sentivo che il destino, fra le alternative “lascia questo pianeta” e “resta e fai la differenza”, mi stava premurosamente indicando che la prima era da scartare. Mi rimboccai dunque le maniche e, con la facoltà di legge, pensavo, avrei potuto fare politica e fondare un giorno un “movimento” (non “partito”). Avevo già il nome: “Movimento Etico”.

Intanto il “cerchio” iniziato dal Carlo bambino in terza elementare stava per chiudersi, ma lui non lo sapeva ancora. Fu un attimo: i bambini erano ora ventenni, e il karma aveva – neanche troppo velatamente – manifestato l’affinità dei due, divenuti praticamente all’unisono vegetariani giusto una manciata di mesi prima di ritrovarsi per caso. Fu la prima e unica volta che Carlo interruppe una relazione, ma, del resto, chi era lui per opporsi a quel disegno che pareva scritto a chiare lettere nel suo futuro? Fra le tante scelte di una vita, anche quella rimane impressa indelebilmente, come una delle più disastrose.

“Tu ami troppo”, era solito ripetermi il mio amico, che sapeva perfettamente di cosa parlava, memore di così tanti sfoghi d’amore da rendere impossibile tenerne il conto. Diciamo soltanto che, utilizzando un paragone aeronautico, se le ore trascorse ad ascoltarmi fossero state ore di esercitazione al volo, a quest’ora avrebbe il brevetto per pilotare qualsiasi aereo, elicottero, velivolo, shuttle, razzo, missile, astronave umana o aliena, compresi vascelli Klingon e Falchi Romulani.

Amare troppo significa anche annientarsi e perdersi, specie se si è in balìa di chi non sa o non può ricambiare, ma nemmeno separarsi.

Erano ancora gli anni dell’università, e tutto sembrava perenne. L’essere giovane, lo studio, i genitori, la storia d’amore travagliata. E l’estate Pescara.

Solo che nel frattempo, mentre in Italia prevaleva la destra, io diventavo di sinistra, ed essere vegetariano e di sinistra già iniziava a rendermi un po’ meno a mio agio in molte situazioni cui ero abituato o che mi circondavano.

Poi è arrivata la liberazione da quel rapporto, e una nuova rinascita. Avete idea di cosa voglia dire avere accanto qualcuno che si fa carico dei tuoi pensieri, che condivide e ammira le tue idee, i tuoi propositi, e che al contempo è in grado di stimolarti a fare meglio e “oltre”, e ad apprendere e completare la tua persona e i tuoi pensieri? Probabilmente no. Perché non è una cosa affatto semplice da trovare in giro. Tanto più in questi tempi virtuali e superficiali. Una ragazza che si rifiuta per principio di usare Facebook e l’Iphone, e che si divide in 4 e in 4 ancora, per sostenerti, stare al tuo fianco, supportarti.

Sembra ieri, la morte del mio Elton, il cane che entrò nella mia vita, lui cucciolo e io adolescente, in quell’anno di rinascita pescarese. E “lei” che mi consola. Anche senza parole. Unico spirito affine in un mondo sempre più alieno, e ora ancora di più, senza il mio Elton. Senza le notti abbracciati su un letto troppo piccolo per uno, in cui a volte si aggiungeva anche la dolce Lynn, la gattina, fra i tanti della casa, che aveva scelto me come suo amico.

Perfino in quel dolore lacerante, anche quando le parole non servono proprio a niente, “lei” c’era, giurando di esserci per sempre.

Ecco, se vi sembra troppo bello per essere vero è perché – probabilmente – lo è. Perché poi quella stessa persona finisce per mollarti dicendo che vuole farsi Facebook e l’Iphone, e che cose come il tuo opporti ai regali di natale per motivi di principio rappresentano un ostacolo significativo all’educazione della futura prole.

Purtroppo alla fine della storia tu aspetti, ma ti accorgi che non scende nessun cartellone con la scritta “Scherzi a parte”. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, provi a trovare il senso delle promesse e dei ripensamenti, ma ti sfugge. Scopri, però, che il mondo è diventato improvvisamente bianco e nero, mentre i colori sono spariti all’orizzonte, portati via con l’ultimo sole del tramonto.

Nel frattempo sei diventato vegano, hai diretto un’associazione, hai scritto libri, hai fatto conferenze in giro per il mondo… e poi ti guardi intorno e il giorno in cui compi quarant’anni non c’è nemmeno una persona che ti inviti a cena.

Non vedrai le tue nipoti, perché i loro genitori sono troppo a disagio con le tue vedute.

Non riceverai gli auguri da tuo fratello, perché… le tue idee sono belle, sì, d’accordo, ma il tuo lavoro minacciava i suoi interessi.

Non riceverai gli auguri dai tuoi genitori, perché… be’, questo in realtà non lo hai capito neppure se oggi compi 40 anni.

Però sai una cosa: che in questa vita le cose che ti accadono dipendono da te, e quindi un rapido esercizio di logica ti suggerisce che qualcosa che non va c’è.

Comprendi anche che fino a ieri sei cresciuto a ogni compleanno. Da oggi invecchi. E non c’entra con l’età: dipende da come ti svegli al mattino. Guardando al giorno che inizia e al futuro con speranza, entusiasmo e aspettative? O come un’altra pagina di un libro che per te si è già concluso tempo addietro?

Ecco, il giorno esatto in cui ti accorgi che speranze e sogni sono relegati al passato è il giorno in cui cominci a invecchiare, e non pensi più “non ho abbastanza tempo per fare tutto quanto”, ma “ho troppo tempo rispetto a ciò che mi interessa fare”.

Ti guardi attorno, e ti senti estraneo, alieno. In un posto sei troppo estremista, nell’altro troppo moderato. In una cosa credi troppo, nell’altra troppo poco. E quelli più simili a te sono troppo critici o polemici per condividere qualcosa di profondo con altri… e forse questo sei, o sei apparso anche tu agli occhi di quelli con cui avresti voluto condividere. Ma tant’è. Fai tesoro, e guarda avanti, ti dicono.

Solo che quando ogni cosa che vedi o immagini “davanti” è peggiore di quella “dietro”, qualcosa non funziona. Se arrivi all’età in cui avresti dovuto avere famiglia e amici e affetti attorno, e non hai se non illusioni e delusioni, anche da te stesso, come puoi giustificare il tempo futuro?

Eccomi dunque qui, a mezza via. Solo “poco fa” avrei detto la metà di un percorso. Oggi, invece, del tutto fuori gara.

Il bello, il buono, la speranza, sono nel mio “primo tempo”. Quello in cui credevo che avrei potuto fare la differenza nel mondo, in cui credevo di poter essere amato incondizionatamente, come ho amato io, in cui credevo di aver trovato delle persone speciali e uniche che avrebbero condiviso con me il percorso.

È stato un primo tempo emozionante, variopinto, a volte profumato, a volte puzzolente. A volte drammatico, a volte estatico. A volte troppo freddo, a volte troppo caldo. Sono stato di destra, di sinistra, e apolitico. Ho studiato e dato innumerevoli esami, e sono stato dall’altra parte della cattedra. Ho letto tanti libri, e ne ho scritto qualcuno. Ho ascoltato canzoni e qualcuna l’ho scritta e cantata. Ho avuto una BMW cabrio e una Delta di quarta mano, e sono stato altrettanto orgoglioso quando ho comprato e rinunciato alla prima. Sono stato appiedato per molti anni, e poi per molti anni motociclista. Sono stato onnivoro, vegetariano, vegano e aspirante fruttariano. Ho fatto il bagno in acque tropicali così calde e trasparenti che non vorresti mai uscirne. Ho nuotato vestito in un fiume d’inverno per raggiungere la riva. Ho cucinato per tante persone, e ho mangiato ciò che altri, con amore, avevano cucinato per me. Ho fotografato paesaggi incantevoli. Ho visto film che hanno segnato la mia vita. Ho letto libri che mi hanno accompagnato nelle stagioni della mia vita. Ho riso a crepapelle. Ho pianto per anni per amore, e non soltanto. Poi non ho più pianto per altri anni. Poi ho ripreso a piangere. Ho mantenuto la fiducia nel prossimo anche quando sembrava il contrario, o quando chiunque altro l’avrebbe perduta. Ho coltivato il mio cibo. Ho guidato per migliaia di miglia da una parte all’altra degli Stati Uniti. Ho guardato la televisione, ho ascoltato la radio, ho letto i giornali. Sono stato in televisione, in radio, sui giornali. Ho smesso di guardare la tv, ascoltare la radio, leggere i giornali. Mi sono ubriacato per la prima volta a 15 anni. Ho deciso di non bere più alcool attorno ai 30. Ho ascoltato le storie di tante persone. Ho raccontato la mia storia a tante persone. Ho conosciuto persone che ammiravo, e di cui avevo letto le opere. Ho guidato più o meno qualsiasi mezzo dotato di ruote. Ho guardato questo mondo attraverso i miei occhi, gli occhiali e le lenti a contatto. Ho comprato computer. Ho assemblato computer. Ho fatto regressioni alle vite passate e progressioni alle vite future. Ho visto un disco volante. Ho saltato pasti per giorni interi. Ho mangiato per giorni interi. Ho fatto palestra, giardinaggio, dipinto pareti di casa, sostituito interruttori, riparato perdite idrauliche, guasti della moto e dello scooter. Ho imparato a tagliarmi i capelli da solo. Ho preso farmaci. Mi sono curato senza prendere farmaci. Ho avuto il medico della mutua. Ho rinunciato al medico della mutua. Sono sopravvissuto al sabotaggio dei freni della moto e a 3 cadute. Ho continuamente cercato il senso delle cose e nelle cose. Soprattutto, c’è una cosa che ho sempre fatto, ricordando quel bambino fuori dal gruppo nel suo primo giorno di scuola: non mi sono mai tirato indietro. Non ho mai rinunciato. Non ho mai pensato che non avrei potuto fare qualcosa. Perfino quando, poi, non ci sono riuscito effettivamente, come diventare un astronauta. Perché l’unico modo per conoscere i propri limiti è quello di porsi obiettivi che vadano oltre i propri limiti.

Come aver vissuto molte vite in una.

Sono qui, a mezza via, con un milione di scuse da fare e di persone a cui farle, ma che non vorrebbero sentirle. Con un altro milione di scuse da ricevere, da persone che non sono intenzionate a farle. Con la consapevolezza che tutte le scuse del mondo non cambiano niente, se non c’è la volontà di fare meglio, e che, allo stesso tempo, senza quella a nulla servono.

Eccomi qui. Cambiato. Maturato. Invecchiato. Più consapevole e per questo meno appagato, e più solo. Uscito un istante dalla sala durante la pausa, per raccontare il primo tempo di un film, il cui secondo tempo non potrà essere se non un tributo, e probabilmente una commemorazione.

Una vita, a metà, per contemplare una vita, a metà.