SUL RISPETTO

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Esistono parole che descrivono concetti astratti o artificiali, il cui significato varia a seconda della cultura, delle conoscenze, dei sentimenti e delle percezioni di ciascuno: ciò perché non fanno riferimento a nulla di assoluto, e dunque il loro senso è per definizione mutevole e relativo. Se, per esempio, dovessimo definire cosa sia il “bene”, incontreremo non poche difficoltà, e sicuramente i nostri interlocutori fornirebbero versioni differenti di questo concetto.

Non è un caso se ho menzionato proprio l’idea di “bene”: si tratta di una delle definizioni più controverse nella cultura e nella filosofia, ma è altresì fondamentale per la maggior parte di esse, e molti di noi dedicano l’intera esistenza a cercare di perseguirlo, sia esso inteso in senso egoistico (il proprio bene), sia come atto altruistico (il bene altrui).

Ho sempre ritenuto surreale come teorie morali largamente affermate, a partire dall’utilitarismo, potessero fondarsi su qualcosa di talmente arbitrario da rendere perfino impossibile individuarlo con certezza: per ovviare a tale lacuna sono stati proposti innumerevoli correttivi, che evidentemente non sono meno arbitrari del presupposto di partenza.

Forse è proprio l’estrema artificiosità che la filosofia degli ultimi secoli (o forse sarebbe meglio dire millenni, cioè in seguito ai pensatori greci classici) ha manifestato ad aver completamente reciso i suoi legami dal tessuto sociale e culturale.

Quando mi sono avvicinato per la prima volta a questi argomenti in modo serio non avevo naturalmente alcuna pretesa né ambizione, se non quella di far maturare i miei stessi pensieri; tuttavia, più scavavo a fondo in quei concetti che dovrebbero essere un riferimento collettivo, più osservavo lacune e incongruenze.

Sono profondamente convinto che prendere coscienza delle differenze significhi altresì riconoscerne la reale natura: occorre sempre saper discernere tra ciò che è e ciò che appare. Il semplice fatto che l’essere umano attui numerosi comportamenti deprecabili non significa affatto che le cause siano altrettanto numerose: essi potrebbero essere soltanto sintomi variegati derivanti da un’unica causa. Se così fosse, è evidente che tutti i tentativi di classificare, separando e compartimentando in modo stagno, nulla potrebbero se non un trattamento sintomatico, e in quanto tale mai risolutivo.

Un altro fatto, ampiamente trascurato, è che tutti i nostri parametri della morale sono giustappunto “nostri”: il semplice fatto di assumere il benessere o la felicità con la soddisfazione delle aspettative quali indici di cosa sia giusto implica una aprioristica restrizione dei soggetti interessati. In termini tecnici tutto ciò è pacifico nel pensiero dominante, poiché gli agenti morali vengono identificati esclusivamente con gli esseri umani; ma anche chi propone di estendere la categoria agli animali non umani finisce irrimediabilmente per escludere dalla propria considerazione la maggior parte di ciò che esiste.

Fatte le debite premesse, la strada era tracciata: individuare un principio unico, atto a ispirare qualsiasi tipo di condotta o relazione tra enti, assoluto e non dipendente dall’osservatore o dall’ideatore. Ho trovato nel concetto di rispetto quell’unico comune denominatore, sufficiente e necessario per determinare tutto il resto.

Abbiamo parlato di assoluti, ma è bene chiarire fin da subito che l’unico modo per riconoscere questo attributo al concetto di rispetto è quello di relativizzarlo al contesto, onde evitare di farne un mero ricettacolo privo di significato: rispettare un essere umano o un filo d’erba sono due cose parimenti possibili, ma evidentemente fondate su presupposti differenti.

A questo punto è evidente che assoluto e relativo dovranno coesistere costantemente, per garantire che, da un lato, si possa comprendere l’unicità del principio informatore delle azioni, e, dall’altro lato, non se ne faccia una bandiera formale, ma si garantisca l’effettività del risultato attraverso la corretta estrinsecazione del principio.

Il rispetto deve essere verso tutti, altrimenti non è tale. Deve essere altresì aprioristico, cioè, non si può cercarne di volta in volta la giustificazione, come presupposto per riconoscerlo ad alcuno, ma deve essere attribuito a chiunque e a qualunque cosa: l’interrogativo preliminare all’azione dovrà essere pertanto come riconoscerlo in concreto, e non se.

L’applicazione congiunta di questi semplici principi porta al capovolgimento del sistema culturale a cui siamo abituati: la nostra tradizione, in particolare quella di uomini occidentali, ci ha insegnato a impossessarci di chiunque e di qualsiasi cosa non siano in grado di opporre resistenza, e sebbene molti di noi non siamo disposti ad ammetterlo, anche le azioni dei più impegnati implicano costantemente una mancanza di rispetto nei confronti di una moltitudine di enti. Basti pensare al semplice trasporto che nei nostri tempi rappresenta un esempio di civiltà e di progresso, ma che al contempo annienta qualsiasi forma di rispetto nei confronti di animali, insetti, piante, che hanno la sola colpa di trovarsi sul tracciato di una strada, o nella sua prossimità. A ben vedere, considerati il danno ambientale e l’inquinamento che ne derivano, è facile constatare che ciò non rispetti nemmeno gli altri esseri umani, e quindi neppure lo stesso agente, che assurge pertanto al duplice ruolo di vittima e carnefice.

Sicuramente il nostro modo di pensare non è l’unico possibile, ed è largamente improntato alla tradizione culturale che ci deriva da Roma antica: le deportazioni di massa di animali dai territori conquistati e la deforestazione su vasta scala per fornire riscaldamento per il futile piacere delle terme sono tra i primi e più lampanti esempi della mentalità che ho testé descritto. Ogni volta che ci chiediamo quale sia il presupposto per riconoscere la legittimità di una altrui pretesa, o il fondamento di un diritto, e che in mancanza di tale giustificazione ci riteniamo autorizzati a disporre liberamente di ciò che è altro da noi, stiamo perpetuando lo stereotipo del conquistatore.

Ma il concetto di rispetto trova egualmente applicazione anche su scala assai più modesta, a partire dai rapporti con noi stessi e con chi ci circonda quotidianamente. Una delle conseguenze della natura assoluta e aprioristica del rispetto è che esso debba essere riconosciuto in eguale misura non soltanto agli altri, ma anche a se stessi: tutte le filosofie che, parlando di eguaglianza o parità, hanno considerato moralmente ininfluente ciò che la gente compie verso se stesso, hanno dimostrato una palese contraddizione.

Ci si potrebbe domandare a questo punto per quale motivo sia necessario rispettare chicchessia: se stessi, gli altri, il filo d’erba o la mucca. Una prima, elementare risposta, è che per tutti i motivi sopra visti non ci può essere eguaglianza né giustizia senza di esso, ma abbiamo altresì visto che l’ipotesi di riconoscerlo soltanto parzialmente equivale a non riconoscerlo affatto, e che, pertanto, occorre ripensare radicalmente i presupposti della nostra morale.

Si potrebbe inoltre argomentare che, trovandoci tutti inevitabilmente connessi in un sistema chiuso, la mancanza di rispetto nei confronti di un elemento di tale sistema si riverbera inevitabilmente su tutti gli altri, di talché la logica la matematica inducono a concludere nello stesso modo appena visto.

Ciò che dovrebbe realmente impegnare le nostre energie è, semmai, l’esatta identificazione delle manifestazioni concrete del rispetto nei differenti casi: per questo motivo ho ritenuto necessario affiancare al principio fondamentale altri tre, cioè non interferenza, circolarità ed equilibrio. Ciascuno di essi consente di ricavare i parametri necessari affinché in qualsiasi situazione sia possibile determinare l’azione moralmente corretta, senza incorrere nel vizio dell’arbitrio derivante dalla soggettività dei parametri.

Nel senso appena detto l’Eusebismo si presenta come un pensiero universale, cioè adattabile a qualsiasi contesto, soggetto od oggetto, e che a differenza di tutte le altre discipline differenti, non pone alcuna discriminazione di principio tra umani, non umani, oggetti animati o inanimati.

Dopo aver escluso l’ammissibilità del dubbio “ciò che ho davanti a me merita rispetto?”, il primo (sebbene in considerazione del principio di unitarietà dovrebbe considerarsi anche l’unico) quesito che un eusebista si porrà preliminarmente riguardo a qualsiasi azione sarà dunque: “Sto rispettando il destinatario della mia azione?.