UN MONDO SERIALE

dipendenza tv

C’erano una volta i film.

Con la comparsa della televisione sono nati i telefilm.

Nel frattempo, accanto ai titoli dei film, hanno iniziato a fare la loro comparsa anche i numeri: era l’avvento dei sequel, cioè dei seguiti di quei lungometraggi che avevano riscosso più successo.

Poi sono arrivate le saghe: non più soltanto un seguito, e non necessariamente la continuazione di un racconto precedente, ma semplicemente la perpetuazione di un marchio.

I telefilm sono diventati serie. Esattamente come i film, del resto. A distinguerli, soltanto il numero di episodi, la frequenza e il passaggio per le sale di proiezione.

In una società annoiata come la nostra l’industria dell’intrattenimento ha raggiunto dimensioni macroscopiche, e da semplice specchio della richiesta collettiva, ha finito per diventarne vero e proprio motore.

L’universo nel quale viviamo è tanto ampio quanto le nostre percezioni, e si estende fin dove arrivano i nostri pensieri. Ma i pensieri, per essere veramente “nostri”, devono nascere da dentro ed essere originali. Al contrario, la nostra è una società seriale, esattamente come il modello di intrattenimento che si è affermato con tanta facilità, proprio perché capace di fare leva sull’innata predisposizione umana alla dipendenza.

Di questi giorni va di moda l’espressione “series addicted”, che sta ad indicare appunto la dipendenza dalle serie tv, mutuando ironicamente la terminologia adottata per la dipendenza da stupefacenti, alcol, etc.

Eppure, di ironico, ci sarebbe ben poco: il bisogno compulsivo di apprendere il contenuto del nuovo episodio di una serie, o di sedersi davanti alla televisione a una certa ora, non è poi tanto diverso da quello di entrare in una sala per scommesse o gioco d’azzardo, oppure dal non poter fare a meno della tazzina di caffè al mattino o del bicchiere di vino a cena.

Qualsiasi azione non necessaria, che siamo incapaci di astenerci dal compiere, rappresenta di fatto una dipendenza; a maggior ragione quelle azioni che oltre a essere superflue sono addirittura dannose.

Ma, in fondo, quale danno potrà mai fare circondarsi di serie? Non è mica come drogarsi o fumare!

In verità dovremmo preoccuparci più del declino della nostra mente che non di quello del nostro corpo, anche perché nella maggior parte dei casi il secondo deriva proprio dal primo. E, spostando l’attenzione sulla mente, è assai facile comprendere il danno: l’arte, l’originalità, la fantasia, il pensiero autonomo, hanno lasciato spazio alla fossilizzazione su suggestioni commerciali ripetitive, il cui scopo sempre più esplicito è quello di creare assuefazione.

Una volta esistevano gli estimatori delle arti, della musica, della letteratura, del cinema. Oggi esistono soltanto consumatori: la parola d’ordine è “quantità”. Tutto è finalizzato a vendere spazi commerciali, applicazioni, abbonamenti.

La bravura, l’estro, l’arte, la capacità, la tecnica hanno deposto le armi di fronte all’economia e al suo diktat: assecondare la dipendenza. Dai telegiornali alle serie, passando per i programmi televisivi, la morbosità regna sovrana: una volta ai fenomeni da baraccone erano relegati al circo, mentre oggi sono star indiscusse e onnipresenti.

Tutto, ma proprio tutto, ha valore soltanto per ciò che è capace di far guadagnare: tanto mercato, tanto valore.

Già alcuni decenni fa ci si lamentava della cosiddetta “tivù spazzatura”. Oggi la spazzatura ha conquistato la cultura e l’informazione, poiché paga, poiché la società ne vuole sempre di più.

Ci sentiamo tanto più liberi quanti più canali possiamo selezionare con il nostro telecomando, ma non appena premiamo il tasto “on” chiudiamo la porta della nostra stessa prigione. Chiudiamo i nostri pensieri e accettiamo di essere invasi da quelli di altri. E non sono pensieri nati o diffusi per aiutarci, bensì per sfruttarci.

Tanti più gesti seriali compiamo nelle nostre vite, tanto meno siamo liberi, trasformati in consumatori anche di noi stessi; consumiamo, infatti, perfino i nostri pensieri lasciandoli sfumare dietro a intrattenimenti superficiali e sempre più sterili.

2500 anni fa gli uomini alzavano gli occhi alle stelle e si interrogavano, riuscendo a spiegare i meccanismi celesti. Guardavano attorno a sé i più piccoli dettagli di un mondo da esplorare e cercavano il perché delle cose. Si interrogavano sul senso della loro esistenza, aprendo la mente a qualunque possibilità. Erano protagonisti del proprio universo, che non aveva confini.

Oggi, 2500 anni dopo, noi siamo spettatori seriali, e il nostro universo è diventato improvvisamente piccolissimo, e ripetitivo.