Quando il diritto alla vita conta meno del diritto a toglierla

Il diritto di uno finisce dove inizia quello dell’altro: con queste parole, da semplice studente di giurisprudenza, credevo di apprendere i principi ispiratori delle leggi umane e delle società.

“Credevo”: il termine non è casuale, poiché di vera e propria fede si trattava; fiducia in un sistema che, pur con tutti i suoi limiti e le sue pecche, volge il suo sguardo ai più indifesi e la sua mano ai deboli, per sollevarli dal giogo dell’arbitrio e della legge del più forte.

Avevo fede, lo ammetto, anche nell’idea che gli interessi alla vita e alla salute prevalessero su quelli economici: non puoi sparare a qualcuno che ha cercato a mani nude di rubarti il portafogli, poiché il bene della vita è prevalente su quello del patrimonio ed è meglio che qualcuno perda un portafogli, anziché qualcun altro la vita.

Ma prima, molto prima di finire sui banchi dell’università, ero un bambino di 8 anni, ancora da compiere, quando una notizia scosse per un po’ le cronache: un luogo in Ucraina, fino a quel momento sconosciuto, divenne tristemente famoso per l’esplosione di una centrale atomica.

Per qualche tempo si visse anche in Italia la paura che arrivassero le radiazioni, poi la paura passò ma per fortuna lasciò dei semi: venne organizzato un referendum e il nucleare bandito in tutta la nazione.

Venticinque anni dopo l’Italia voleva tornare sui propri passi e uno degli argomenti più praticati dai fautori del nucleare era che, essendo circondati da paesi con centrali nucleari, siamo ugualmente a rischio pur non avendone, quindi tanto vale adottarle e percepirne anche i frutti.

A quel punto è accaduto qualcosa che, a voler citare Manzoni, sarebbe proprio il paradigma della provvida sventura, che poi in termini karmici equivale sostanzialmente al concetto di causa ed effetto: un’altra città sconosciuta del Giappone assurge alla ribalta delle cronache.

Questa volta il referendum italiano, già organizzato, mirava a riportare il nucleare che era stato abolito: forse per Fukushima, forse no, anche stavolta le persone hanno ribadito il rifiuto di 25 anni prima.

Ora, nel 2013, è da molto ormai che non si sente nominare Černobyl’ e anche Fukushima è lontana dalle cronache che presto accendono i riflettori e presto li spengono, poiché la gente – si sa – si stanca in fretta di vedere gli stessi titoli e cambia canale.

Per fortuna adesso c’è il web e, con un po’ di pazienza e costanza, si riesce a trovare aggiornamenti, ufficiali o meno, su qualsiasi argomento, ben oltre dopo che il sipario mediatico è calato.

Dal marzo 2011 a oggi non mi è mai capitato di leggere notizie positive su Fukushima, né mi sono mai potuto illudere che la situazione fosse in miglioramento, oppure stabile: due anni e mezzo in costante peggioramento, scoprendo ogni volta nuove fuoriuscite, nuove contaminazioni, l’impossibilità di effettuare gli interventi previsti o le bonifiche promesse.

Le ultime notizie sono le acque radioattive, centinaia di migliaia di tonnellate, che si stanno riversando nell’oceano, provocandone la contaminazione, mentre già non si contano più le spoglie di balene ormai inerti sulle coste del pacifico, uccise dalle radiazioni: perfino in questo caso mi riesce difficile trovare informazioni su qualcosa di meno spettacolare, ma ancora più sconfinato, e riesco solo ad abbozzare nella testa ordini di grandezza per definire la strage, l’olocausto di pesci e altri abitanti del mare, a noi invisibili.

Intanto la notizia che le acque contaminate raggiungeranno anche la California si affaccia quasi come un’altra ipotetica provvida sventura: servirà anche questo a richiamare alla consapevolezza altre società? Ma il timore è che neppure ciò sia sufficiente. Del resto, come sperare nella consapevolezza di intere società che si preoccupano seriamente soltanto quando le conseguenze di scelte sbagliate ricadono su di loro, mentre restano indifferenti alle sciagure altrui?

Queste catastrofi provocate dall’uomo hanno un solo effetto positivo: aiutarci a comprendere i limiti dei nostri diritti.

Nel frattempo ho pensato di cercare qualche aggiornamento anche su Černobyl’, che sarà uscita dalle cronache dei telegiornali, ma non lo è dal mondo che abitiamo, dagli animali, dalle persone, dalle piante che continua ad avvelenare, mutare, uccidere: un milione di vittime stimate ad oggi soltanto fra gli umani.

Chi, fra quelli che hanno materialmente commesso gli errori, oppure progettato, costruito, approvato, non vietato, ripagherà il mondo e i singoli individui dei danni? Tutte le ricchezze del mondo non potranno modificare le leggi fisiche di decadimento degli isotopi radioattivi, e certamente tutta l’energia “a basso costo” prodotta non sarà mai sufficiente a ripagare quei danni, né a riportare in vita i morti.

Come si può giustificare il diritto di una nazione di adottare una tecnologia in grado di devastare il mondo di tutti e i territori occupati da altre nazioni? Come può un parlamento o un popolo decidere per tutti i parlamenti e tutti i popoli del mondo?

Nel parlare di sovranità popolare e delle istituzioni democratiche ho sempre pensato che si facesse riferimento al diritto di ciascuna popolazione di disporre di sé, ma che ne è di tutti gli altri, quando le decisioni li coinvolgono, senza che essi possano esprimere alcuna volontà?

Il diritto di uno finisce dove inizia quello dell’altro? Se così fosse, allora è tempo che le decisioni che riguardano tutti i popoli della Terra vengano prese di comune accordo e non sulla base di confini che esistono soltanto sulla carta, ma che un pugno di atomi può spazzar via senza appello.

Oggi, che la Rete offre questa possibilità, ciascuna persona, di ogni nazione, potrebbe promuovere un referendum, affinchè gli abitanti di tutto il pianeta possano prendere le decisioni che li riguardano, o perlomeno opporre ad esse un veto.

A stento è partita l’azione giudiziaria in Giappone per i fatti di Fukushima, mentre i responsabili di Černobyl’ sono stati condannati a pochi anni di carcere: come potremo insegnare la giustizia e il rispetto, domani, se oggi è più facile essere condannati per una diffamazione anziché per aver ucciso milioni di persone e aver contaminato un intero pianeta?

Intanto, nel cercare cause e soluzioni, ci si imbatte in un’altra triste consapevolezza, che sfata l’ultima illusione: soltanto a livello microscopico la salute e la vita possono essere anteposte al guadagno, mentre nei massimi sistemi, dove la politica e la finanza si incontrano, c’è soltanto una parola d’ordine ed è “profitto”.

Come giustificare altrimenti un neo-governo giapponese che intende rilanciare il nucleare per fornire elettricità a basso costo che favorisca l’industria? Quella stessa industria che, intanto, rischia di annaspare per gli aumenti dell’iva e della pressione fiscale in generale, necessari per finanziare le bonifiche a Fukushima.

Si può avere fede in tutto, in un dio o in un capo buono come in uno cattivo, ma non in uno stupido: ecco perché è ora di mettere da parte la fede e intraprendere il cambiamento.

A monte di un sistema in declino c’è l’elevazione del profitto a scopo supremo dell’esistenza: si deve arricchire chi vende l’elettricità e lo stato che la tassa, che a sua volta deve foraggiare classi politiche opulente, danarosi e interessati finanziatori, apparati burocratici sterminati e inefficienti, sistemi sanitari sballati che a loro volta concorrono a causare i problemi che promettono di risolvere e che vengono munti da industrie che creano dipendenza.

In tutto ciò si parla ancora di diritti, ma diritti di chi? Dei consumatori, a essere plagiati da bombardamenti pubblicitari onnipresenti, fino a desiderare oggetti del tutto inutili? Delle persone, convinte a dover dimostrare affetto a comando ai propri cari con mille ricorrenze e mille regali? Delle industrie, che affondano la spada del consumismo nelle viscere della Terra, provocando ferite che presto non saranno rimarginabili? Delle nazioni, guidate da governi fini a se stessi e agli interessi di casta?

Quale spazio resterà, in mezzo a tutti questi “diritti”, per il diritto alla vita, alla salute, alla libertà? Non ci può essere tutela per gli interessi di tutti, finchè saranno imposti a forza quelli di pochi: per fortuna la scelta è ancora nelle nostre mani e se avremo il coraggio di cambiare noi stessi, limitando i consumi e orientandoli consapevolmente, vedremo cambiare il mondo intorno a noi molto più in fretta che non affidandoci alla fede di quel cambiamento dall’alto che tutte le epoche storiche hanno sistematicamente disatteso.

Diritto a consumare e diritto a sopravvivere: quale dei due avrà la meglio, in una gara che ammette soltanto un vincitore?