ELOGIO DELL’INCOERENZA

incoherence

Ci hanno da sempre insegnato che l’incoerenza è deprecabile, che chi è incoerente sbaglia e che nulla possiamo apprendere da questi: io sostengo che questo non è corretto, e che – anzi – l’incoerenza può assurgere a vera e propria cartina al tornasole della validità di teorie, concetti, idee e ideali.

Iniziamo da una considerazione banale: non esiste la coerenza assoluta nella specie umana. Se esiste, si tratta di casi marginali, oppure di vera e propria malafede: in generale siamo congenitamente predisposti a ravvisare l’errore e l’indebito negli altri anziché in noi, disattendendo il nobile precetto del “non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.

Purtroppo questo procedimento si traduce e si è storicamente tradotto in pensieri filosofici e politici strettamente legati al contingente, alle inclinazioni personali di pensatori e statisti, nonchè nell’adesione ad essi da parte delle masse.

Ma se è vero che tutti noi siamo incoerenti, allora è matematicamente impossibile che il “giusto” corrisponda a tutti i nostri comportamenti, che, cioè, essi siano tutti giustificati all’interno di una teoria: se così fosse, vorrebbe dire o che chi l’ha formulata è al 100% coerente, oppure che la teoria è sbagliata.

Si dice sempre che l’essere umano è limitato, che le sue capacità cognitive e interpretative, per quanto vaste o ampliabili, sono pur sempre soggette a limiti oggettivi e insuperabili: io non penso che ciò sia vero, ma ritengo piuttosto che l’essere umano del passato e quello del presente lo siano, ma penso anche che potenzialmente ciascuno di noi ha in sé le risorse necessarie a elevarsi senza limiti, salvo quelli che egli stesso si impone.

Dunque un essere umano, momentaneamente limitato, non può che rapportarsi al suo tempo, alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi, alle sue inclinazioni: per quanto possa adoperarsi è assai improbabile che riesca ad emanciparvisi totalmente.

Insomma, se troviamo giustificato tutto ciò che facciamo dovremmo renderci conto che o siamo i primi umani perfetti venuti alla luce, oppure – piuttosto – che siamo semplicemente gli ennesimi affetti da ipocrisia e convinti di avere ragione pur avendo torto.

La frammentazione politica, di cui peraltro l’Italia è un esempio di spicco nel mondo, rispecchia questa nostra condizione: siamo costretti a cercare il bilanciamento attraverso il contemperamento tra interessi opposti o comunque divergenti, poiché non riusciamo a raggiungere, come individui, un equilibrio interiore che ci consenta di adoperarci per il giusto, anziché per i nostri interessi.

Un esempio, probabilmente ormai datato ma di facile comprensione: per quale motivo esiste un partito che difende gli interessi degli operai e un altro che difende quelli dei “padroni”? E’ naturale che le istanze di cui si fa portatore il primo, così come il secondo, non sono quelle di giusto assoluto, bensì quelle che avvantaggiano alcuni a scapito di altri. La riprova? Non ci sono padroni nel partito degli operai, né operai in quello dei padroni, ma se ce ne fossero, allora sapremmo con ragionevole certezza che stanno agendo coerentemente con un’idea pura e non in ottemperanza a un interesse.

È per questo motivo che oggi, in un tempo caratterizzato da esseri umani limitati e incapaci di conseguire autonomamente l’equilibrio tra contrapposti, il confronto democratico non è soltanto una forma sterile, ma una necessità per garantire le scelte più equilibrate possibili.

Bobbio negava l’esistenza di ideali di giusto o di bene assoluti, affermando che essi dipendono esclusivamente dal contesto sociale che li elabora: si tratta di una considerazione sbagliata per definizione, poiché negare “assolutamente” che esista qualcosa è l’opposto del relativismo posto alla base di simile conclusione. Non si può affermare “tutto è relativo”, senza incorrere in un controsenso, identico nella formulazione negativa “niente è assoluto”: “tutto” e “niente” sono per definizione termini assoluti, di inclusione o esclusione totale, ciò che è impossibile nel relativismo.

Affermare, come faceva Bobbio, che il fondamento assoluto del diritto non esistesse, soltanto perché nelle varie epoche storiche esso era mutato, non rappresenta una formulazione filosofica, ma semplicemente una ricostruzione storica: se tutti mentono, significa forse che non esiste la verità?

Allo stesso modo nessuno di noi può considerarsi nel giusto se tutto ciò che professa tale coincide con ciò che egli pratica in concreto, salvo che questi sia l’essere umano perfetto, in quanto perfettamente consapevole e perfettamente coerente con la propria consapevolezza. Ma se anche così fosse, probabilmente non saremmo in grado di riconoscerlo come tale, poiché lo giudicheremmo con parametri imperfetti, cioè collegati a quelle inclinazioni personali, interessi, pregiudizi e sostrati culturali che ci impediscono di essere perfetti (nell’accezione di cui sopra), e dunque – spesso – anche di riconoscere la perfezione.

Quando ho formulato i principi dell’Eusebismo non l’ho fatto pensando a come io sono oggi o a come il mondo è oggi, ma usando parametri e riferimenti oggettivi, estranei alla soggettività, e in vari casi non coincidenti con le mie stesse condotte o inclinazioni. Quei principi assoluti sono tali proprio in quanto relativizzabili: criteri come rispetto o equilibrio non dicono a priori “fai questo, non fare quello”, ma impongono e consentono di avere uno schema mentale adattabile a qualsiasi contesto senza strumentalismi.

Se io agisco in base all’equilibrio, nel senso letterale del termine, non posso considerare “giusto” vessare qualcuno, o avere più di questi, o antepormi ai suoi interessi, etc.

Lo stesso vale per il rispetto: non si può rispettare qualcuno/qualcosa decidendo in base alla nostra preferenza, ma occorre tenere in considerazione le specificità di ciascuno, per valorizzarle. Per esempio, non sto mancando di rispetto a una pietra se non la saluto, ma potrei mancarne a una persona in quello stesso modo: “suum cuique tribuere”, diceva Ulpiano, cioè “riconoscere a ciascuno il suo”, non a tutti lo stesso.

CONCLUSIONI

Qualsiasi ideale perfetto, rapportato a esseri imperfetti, non può che risultare inattuabile, utopistico: è proprio per questo motivo che occorre avere il coraggio di andare oltre tutti i luoghi comuni e le prospettive soggettive, avendo il coraggio non soltanto di comprendere, ma anche di indicare e promuovere come giusto perfino e soprattutto ciò che non si predilige, o forse neppure si è in grado di fare, ma verso cui ambire.

L’ottimo sarebbe sapere cosa è giusto e compierlo, ma la strada per arrivarci è lunga e il primo passo è superare la negazione e rifiutare l’autoconvincimento o l’ipocrisia che ci permette di elogiare e promuovere soltanto ciò che siamo disposti a fare, impedendoci così non soltanto di cambiare nell’immediato, ma – cosa ben peggiore – per sempre.

A contrariis, tutte le teorie che potremmo definire “populiste”, socialmente condivise e ben accette, sono probabilmente sbagliate, poiché valide soltanto nel “qui e ora” che le ha prodotte, dunque del tutto soggettive e viziate da pregiudizi: proprio perché (oggi) siamo così limitati in tutti i campi del sapere e dell’essere, soltanto ciò che accetta di mettere in discussione ogni cosa può avere speranza di elevarci, offrendoci una meta definitiva, e (in quanto tale), ardua da raggiungere.

Naturalmente questo elogio dell’incoerenza è aprioristico: non vuole fornire un appiglio morale per agire male, o per essere ottimi critici e pessimi agenti, ma tutto il contrario. Avere il coraggio di scoprirsi e ammettersi incoerenti, come passaggio essenziale per avviare una trasformazione, prima del modo di pensare, poi di quello di agire: mai una scusa per, a posteriori, motivare il non aver agito come si era affermato giusto.

D’altronde “arduo” non significa “impossibile”, il che ci lascia con un insperato messaggio di ottimismo: il traguardo è distante, ma abbiamo tutto l’occorrente per raggiungerlo, ed è dentro di noi.