Tutti ne parlano, molti vi ambiscono, pochi lo comprendono, ancor meno lo raggiungono, cos’è e qual è l’importanza dell’equilibrio nel rapportarsi con se stessi e con gli altri?
L’etimologia del termine racchiude in sé uno straordinario e potentissimo simbolismo: “aequus” (uguale) e “libra” (bilancia), riportando con la mente all’immagine di un’arcaica bilancia a piatti i cui pesi sono eguali, quindi entrambi si trovano allo stesso livello.
Nella complessità dei rapporti sociali possiamo definire equilibrio quella situazione in cui le reciproche aspettative e istanze trovano analoga considerazione e possibilità di esternazione/soddisfazione.
L’equilibrio non è soltanto una meta ideale cui ambire, ma anche un presupposto fondamentale di esistenza e funzionamento dell’universo: dagli atomi alle galassie, tutto si basa su una contrapposizione di forze che giungono a bilanciarsi reciprocamente.
Allorchè la forza espansiva della fusione atomica di una stella viene meno e la forza gravitazionale prevale, quel sole si spegne, o, perlomeno, dopo una fase di stravolgimenti e trasformazioni, trova un nuovo equilibrio e inizia a irradiare diversamente da prima: così anche nei rapporti umani, soltanto il perseguimento dell’equilibrio può garantirne il buon esito.
Tutte le nostre azioni – non soltanto le interazioni tra umani – dovrebbero improntarsi all’equilibrio, che è infatti collocato tra i principi fondamentali dell’Eusebismo, in quanto parametro imprescindibile della moralità delle azioni: a differenza di concetti quali “bene”, “male”, “giusto”, “sbagliato”, “piacevole”, “spiacevole”, etc., esso rappresenta un indice oggettivo che può essere misurato e osservato in concreto.
Esaminiamo il rapporto tra umani e pianeta Terra: in base ai principi dell’utilitarismo, per esempio, qualsiasi condotta che determina felicità, aumento del benessere negli esseri capaci di percepirlo, è positiva, dunque moralmente corretta o giustificabile. Secondo prospettive antropocentriche, specie quelle caratteristiche di numerose religioni, la piena disponibilità dell’ambiente è giustificata addirittura da ragioni divine. Perfino secondo il deontologismo sarebbe improbabile poter pervenire a conclusioni oggettive che argomentino a favore di una condotta onnicomprensiva: per esempio nel pensiero di Regan soltanto i cosiddetti “agenti morali” o “pazienti morali” hanno diritto di vedere le proprie aspettative soddisfatte o perlomeno tenute in considerazione nelle regole di condotta moralmente orientate.
Se adoperiamo il principio di equilibrio, come previsto nell’Eusebismo, non occorre fare ricorso ad alcun tipo di sentimento o empatia o inclinazione personale: il rispetto per tutto ciò che è altro da sé scaturisce semplicemente dalla constatazione che in sua mancanza si verifica uno squilibrio, quindi un malfunzionamento ed eventualmente un collasso totale del sistema. Ciò vale per un gruppo di persone, come per un intero pianeta: tanto nel rapporto sociale come in quello con l’ambiente o con altre specie.
Grazie a questo parametro si può evitare quella soggettività che ha normalmente caratterizzato il pensiero di molti filosofi, i quali, pur eventualmente cercando di espandere il novero dei soggetti tutelati o presi in considerazione nella propria morale, hanno finito per creare soltanto linee di discrimine differenti e pur sempre basate sulla loro prospettiva, senza sapersene emancipare.
La piena estrinsecazione dell’equilibrio si manifesta in concomitanza con l’applicazione degli altri principi fondanti dell’Eusebismo: rispetto e possibilità garantiscono che esso sia perseguito tenendo in considerazione anche ciò che è altro da sé, nelle sue peculiarità e aspettative.
In particolare rispetto ed equilibrio si presuppongono e implicano a vicenda, poiché se è vero che non ci può essere rispetto senza equilibrio, è pur vero che l’equilibrio sostanziale (non quello formale) non si può verificare senza che vi sia anche il rispetto.
L’Eusebismo sostituisce il criterio di felicità tipico di molte filosofie, con quelli di equilibrio ed evoluzione (concetto, questo, cui è dedicata una separata analisi), tenuto conto in particolare che la felicità di uno o di molti o di moltissimi non soltanto non determina in alcun modo quella di tutti, ma – anzi – è in potenziale antagonismo con essa. D’altronde la felicità non è neppure un valido indicatore morale, poiché, a parte l’assoluta soggettività, può essere perfino illusoria, e dunque difficile o impossibile da rappresentare perfino da parte dell’agente.
Sicuramente ciò che – portato alle sue estreme conseguenze – si rivela impossibile o determina degli esiti impossibili è contrario all’equilibrio, dunque alla morale, e deve pertanto essere evitato.
CONCLUSIONI
Non importa se non siamo capaci di comprendere la sofferenza di un altro essere umano, di un animale non umano, o di una pianta: è sufficiente acquisire la consapevolezza che il miglior funzionamento possibile di qualsiasi sistema si persegue attraverso il raggiungimento della condizione di equilibrio, per agire in modo moralmente orientato, specie se corretto mediante il ricorso congiunto ai criteri di possibilità e rispetto.
Che si tratti di “dare-avere” morale – per esempio amore – piuttosto che materiale – per esempio nell’acquistare beni di consumo o nell’usare risorse – il risultato non cambia: soltanto il perseguimento dell’equilibrio determina il funzionamento del sistema e, dunque, ne rende possibile la sopravvivenza stessa, oltre a garantire l’appagamento reciproco.
Ogni volta che lasciamo prevalere i nostri interessi su quelli altrui, o che scegliamo di agire senza considerare il risultato complessivo delle nostre azioni, al di fuori dell’appagamento che uno o alcuni individui possono trarne, provochiamo uno squilibrio, dunque commettiamo un atto immorale.