VIVERE LIBERI (DAI RUOLI)

ruoli

Tu, che stai leggendo, sei libero? No, non ti sto chiedendo se ti senti libero, ma se lo sei.

Chi sei? Cosa vuoi? Come vuoi ottenerlo?

Nella società degli uomini ognuno ha un ruolo, che si fonda sulle aspettative degli altri e su schemi automatici molto più di quanto possiamo renderci conto. Prendiamo, per esempio, l’esperimento carcerario di Stanford[1]: guardie che compiono pesanti vessazioni sui prigionieri. Soltanto che non esistono né guardie nei prigionieri: sono tutti semplici studenti della facoltà di psicologia, che si sono prestati a un esperimento. È bastato dar loro degli occhiali a specchio, delle divise, e assegnargli il ruolo di carcerieri, perché nel giro di pochi giorni quel ruolo avesse il sopravvento, tanto da condurre a effetti così gravi da dover interrompere l’esperimento.

Quando nasciamo abbiamo già un ruolo predefinito: siamo i piccoli da coccolare e vezzeggiare. Per noi quelle attenzioni sono un fatto talmente normale da divenire ben presto necessario, tanto che facciamo i capricci quando ci sentiamo trascurati. Mentre gli anni passano, dalla percezione che gli altri hanno di noi deriva anche il nostro modo di concepirci: possiamo divenire e atteggiarci da “adulti” già in tenera età, oppure rimanere “bambini” fino a tarda età.

Ma la svolta più significativa nella definizione dei nostri ruoli passa attraverso l’aberrazione del lavoro. Siamo l’unica specie al mondo a conoscere il lavoro: tutte le altre, i cui individui sono naturalmente e quotidianamente assai impegnati, non conoscono il concetto di nullafacenza, né tantomeno quello di lavoro alle dipendenze altrui. Noi senza lavoro non possiamo vivere, poiché cibo, acqua e terra sono in vendita, ma non liberamente disponibili. Ecco, dunque, che lavorare è un obbligo e non una semplice alternativa.

Noi siamo il nostro lavoro.

Non importa se, quando ha iniziato, l’hai fatto soltanto perché ti occorreva guadagnare soldi. Alla fine il tuo ruolo sarà quello dettato dalla tua carriera.

Quando eri giovane e studiavi magari coltivavi grandi sogni e ideali: pensavi di poter essere differente da quel mondo dei grandi apparentemente così lontano. Ti sembrava così strano vedere la gente litigare per pochi soldi, o per una posizione lavorativa, e tutto ti sembrava così chiaro: esistono la famiglia, l’amore, gli amici.

Finché non è toccata a te, era facile giudicare “quegli altri”: tu il materialismo, l’opportunismo, la prevaricazione, la corruzione, l’anteporre i soldi o la carriera alle persone o agli affetti era una cosa che vedevi soltanto nei film, e quando accadeva ti era facile giudicare.

Ma la vita in fondo è soltanto una palestra: ci convinciamo facilmente che le mete siano il reale obiettivo verso il quale tendere, mentre non ci accorgiamo che in realtà è proprio il mezzo che scegliamo di utilizzare per raggiungere quelle mete a dare senso all’esperienza.

Insomma, tu credi di stare al mondo per ottenere ciò che desideri, mentre invece ci stai soltanto per scegliere in che modo ottenerlo: vedi bene, dunque, che il tuo successo non si misurerà da quanto hai ottenuto, bensì da come.

Così, quasi senza che te ne accorga, mentre tu pensavi di cambiare la vita o la società, loro hanno cambiato te. E non hanno avuto bisogno di importi nulla: ti hanno semplicemente assegnato un ruolo. Magari ti senti perfino di aver scelto liberamente, ma la tua libertà è sempre stata vincolata alla “normalità” che ti circondava: ogni pubblicità, ogni conversazione, ogni telegiornale, ogni esempio dei grandi intorno a te ti ha preparato a sedere a una tavola già apparecchiata, dove ti hanno messo in mano un menu, illudendoti di avere la scelta.

Hai dato una sbirciata al menu della vita, osservando quali ruoli fossero disponibili, e ne hai scelto uno. Poi sei diventato quel ruolo. Quando e come è successo? Ogni giorno, attraverso ogni tuo pensiero, in ogni piccola scelta: in qualsiasi momento avresti potuto fare la differenza. In qualsiasi momento avresti potuto uscire dal ruolo. Soltanto che, ad ogni passo che facevi, ci entravi sempre più dentro e le alternative ti sembravano sempre più impraticabili.

Non esiste un momento in cui uno di noi si ferma a riflettere e decide di abbandonare qualsiasi ideale: è un semplice processo quotidiano che, goccia dopo goccia, scava una fossa, nella quale seppelliamo sogni e speranze, appiattendoci sempre di più in ciò che la società si aspetta da noi.

Accade così, semplicemente, che un giorno sognavi un mondo in cui tutti si vogliono bene e si rispettano, nessuno prevarica l’altro, i soldi non vengono prima delle persone, nè il lavoro prima dei sentimenti. Magari hai iniziato a lavorare perché pensavi che, in quel modo e con quei guadagni, avresti potuto avere una famiglia con quella persona che per te era la vita stessa. Poi, giorno dopo giorno, la tua vita è divenuta una routine: orari fissi, mansioni fisse, ruoli fissi.

Quanto occorre perché quella routine, nata come una semplice esigenza che non avvertivi neppure tua, abbia il sopravvento sugli ideali e sui sentimenti?

Alla fine la promozione, l’appagamento personale che ti deriva dall’aver soddisfatto appieno il tuo ruolo e le gratifiche economiche hanno la meglio: dietro ai tuoi occhiali a specchio e alla tua divisa sfumano rapidamente tutte le altre cose, mentre tu divieni il tuo ruolo. In breve ti rendi conto (o non ti rendi conto) che la rivoluzione e il cambiamento devono farli gli altri, perché tu hai troppi impegni per pensarci.

La tua libertà è svanita, ma tu non te ne sei accorto: in fondo le decisioni che l’hanno fatta svanire le hai prese tu stesso, e questo ti permette di cullarti nell’illusione di essere quello che controlla la vita, mentre invece hai già finito per essere quello che ne è controllato.

Guardavi i “grandi” contendersi qualcosa di cui non capivi neppure il senso, mentre oggi quel paradosso è la tua vita.


[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Stanford_prison_experiment