(NON) SIAMO TUTTI UGUALI

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Molti difensori dei diritti dei deboli e/o degli oppressi sono soliti ripetere che occorre rispettarli, poiché sarebbero uguali ai loro aguzzini, oppure ad altri gruppi i cui diritti sono già stati riconosciuti. Un esempio su tutti? Alcuni attivisti dei diritti animali affermano che non sia giusto uccidere il maiale, poiché non c’è differenza tra questo e un cane. Altri si spingono perfino più in là: il maiale, in quanto più intelligente del cane, non potrebbe non essere rispettato. Questa affermazione equivale a sostenere che l’intelligenza rappresenti la scriminante tra coloro i quali meritano rispetto e coloro i quali, invece, non lo meritano. Non è difficile accorgersi che questa tesi, in verità, sottende la formulazione di un principio di discriminazione, enunciando una regola ben precisa: l’attribuzione dei diritti è proporzionata alle facoltà intellettive. Un’altra applicazione di quel principio sarebbe che chi è più intelligente possa assoggettare a sé chi è meno intelligente.

D’altro canto, che lo si ammetta o meno, fra animali differenti sussistono differenze di tipo e di grado: ci sono specie con facoltà intellettive più sviluppate di altre, ma anche alcune fisicamente più possenti, o in possesso di prerogative uniche. Alcuni animali sanno utilizzare gli ultrasuoni per localizzare prede o per muoversi. Alcuni volano. Altri percepiscono i poli magnetici. Alcuni possono rigenerare intere parti del corpo o arti, rilevare i campi elettrici altrui, il calore emesso, etc. Qualità che, non di rado, vengono associate ad umani nella fantascienza o nella moderna mitologia dei supereroi. Naturalmente senza dimenticare il volo, che è l’attributo per eccellenza dei superumani fumettistici, ma anche di alcune centinaia di miliardi di animali.

Insomma, è evidente che ciascuna specie sia diversa da tutte le altre. Eppure l’essere umano non sembra utilizzare altro, se non il sentimento, nel determinare chi sia degno di essere rispettato e chi, invece, non lo sia. Alcuni chiedono che siano riconosciuti i diritti umani fondamentali ai grandi primati, ovviamente sulla scorta delle loro analogie con gli umani stessi. Ma non di tutti gli umani. Neonati e disabili, per esempio, potrebbero avere facoltà mentali e fisiche assai meno spiccate di un qualsiasi primate, o perfino di un altro animale. Che cosa, dunque, li “salva” dall’essere declassati a mere “cose” non meritevoli di diritti? La loro somiglianza con il legislatore, cioè colui che istituisce le leggi. Non è una coincidenza che esistano persone che si rifiutano di mangiare animali di terra per motivi “etici”, ma non si fanno problemi a cibarsi di pesci. Qualcuno, probabilmente qualche scribacchino da blog di questo nuovo millennio, ha perfino coniato l’incomprensibile espressione “pescetariano” per descrivere queste persone. Riesce, poi, difficile spiegare se tra i due sia stato un comportamento realmente diffuso a determinare la nascita dell’espressione linguistica, oppure il contrario. Un po’ come quelli che diventano vegetariani (e il sottoscritto è stato tra questi), perché pensano che esista una categoria di umani rispettosa degli animali nonostante li usi per procurarsi da loro latticini e uova. Eppure l’etica vegetariana, quando nacque, non contemplava altro che vegetali.

Fatto sta, che l’unica spiegazione ragionevole (benchè non vi sia nulla di concretamente “ragionevole” in questo pensiero) per affliggersi della sorte degli animali terrestri, e disinteressarsi invece dell’atroce tortura (mediante morte per asfissia) di tutti quelli che vivono nel mare, sia rappresentata dalla assai maggiore differenza di aspetto, linguaggio ed espressioni di dolore tra questi ultimi e gli umani.

Dagli animali non umani a quelli umani, il passo è però breve. Così come ci sono persone sinceramente preoccupate di non nuocere a creature non umane, che vengono indotte a ritenere di poterlo fare in base a criteri grossolanamente discriminatori (vd. vegetariani e/o “pescetariani”), ci sono persone che si convincono che rispettare altre persone (umane) significhi non riconoscerne le differenze, e, quindi, “fingere” che siano uguali. Addirittura ci sono persone discriminate, convinte che il riconoscimento di diritti nei loro confronti presupponga l’identità e la negazione delle differenze e diversità. Se, per esempio, l’uomo spreca la sua vita vincolato dalla schiavitù del lavoro e nella speranza (o utopia) di smettere di lavorare, o di poter vivere senza lavorare, si può considerare un capolavoro della manipolazione il fatto che la donna, per vedere riconosciuta la parità di diritti, ambisca alla stessa vita di schiavitù lavorativa. Lo stesso potrebbe dirsi per i matrimoni tra individui dello stesso sesso: il matrimonio non aggiunge né toglie nulla ai sentimenti, ma rappresenta soltanto un istituto di controllo religioso e/o politico, attraverso il quale si cerca di irregimentare e istituzionalizzare qualcosa che, di per sé, dovrebbe rispondere soltanto alla volontà e al sentire degli individui. Se ciò che si vuole conseguire è l’attribuzione di diritti tipicamente riservata al matrimonio, allora sarebbe di gran lunga più ragionevole ottenere dal legislatore l’estensione di quei diritti al di fuori del matrimonio, anziché cercare di conquistare diritti attraverso l’emulazione dello status del legislatore.

Sarebbe abbastanza semplice accorgersi che tutto ciò che viene richiesto per il riconoscimento dei diritti paritetici, in realtà, è l’omologazione. Cioè, in altri termini, la negazione delle differenze e delle diversità.

Dietro all’adozione dei termini più “politicamente corretti”, e alla loro continua sostituzione con altri, si cela l’intrinseco assolutismo morale della società contemporanea: non si può ammettere alcuna inferiorità, malattia, differenza, mancanza, latenza, lacuna. Per avere pari diritti occorre essere tutti omologati. Non si possono ammettere differenze tra razze umane, poiché questo aprirebbe la porta alla discriminazione. Non si possono ammettere differenze tra generi, poiché questo aprirebbe la porta alla discriminazione. E così via. Ma questa è l’antitesi del rispetto delle differenze. Questo è il ricatto dell’omologazione, quale condizione per la concessione dei diritti.

Riconoscere le differenze e non discriminare in base ad esse non significa obbligare tutti a fare le stesse cose per essere considerati uguali. Al contrario, significa – semplicemente – prendere atto di quelle diversità, e, per quanto esse possano essere profonde, e i loro effetti di ampia portata su tutti gli aspetti della vita, avere l’onestà intellettuale di rilevarle dalla prima all’ultima, e, ciononostante, riconoscere all’altro da sé esattamente gli stessi diritti che si rivendicano per sé.

Ciò che avviene quotidianamente è una deriva morale che si potrebbe definire buonista, ma soprattutto superficiale, per cui tutto parte da chi detiene il potere (di fare le leggi), e – dall’alto – può essere selettivamente concesso soltanto laddove vengano riscontrate sufficienti analogie. In questo processo si presuppone quindi una base di negazionismo, in cui le diversità devono essere artificiosamente negate. Segue, quindi, il moto sentimentale, cioè la simpatia o l’empatia: soltanto dopo che si sono rinnegate le differenze, sarà possibile per l’essere umano egocentrico ammettere alla sua stessa tavola (dei diritti) quello che, se considerato troppo diverso, non sarebbe ammissibile.

Questa dittatura morale si finge protesa al rispetto, ma, in verità, non fa altro se non alimentare la discriminazione, poiché non pone a proprio fondamento alcun principio assoluto, bensì il più discriminatorio dei principi: soltanto chi mi somiglia o chi mi è simpatico può godere dei miei diritti.

Alcuni anni fa, l’autore di un libro ha dichiarato che l’intelligenza degli esseri umani risulterebbe essere statisticamente differente in base all’etnia. È stato denunciato per istigazione all’odio razziale. Non so se quello studioso discriminasse o meno chicchessia, ma sicuramente affermare che tra due individui, razze o specie, vi siano differenze intellettuali non implica alcuna discriminazione. Al contrario, ciò potrebbe fondare una discriminazione se qualcuno pensasse che a facoltà intellettive superiori corrispondano diritti superiori. Eppure ben si vede che, in questo caso, l’autore della discriminazione sarebbe proprio il secondo, e non già il primo individuo. Colui che non rispetta chi è diverso non è certo chi nega la diversità, bensì colui che pensa che la diversità possa giustificare la discriminazione. La controprova? Non esiste alcuna società umana al mondo che riconosca agli animali non umani gli stessi diritti fondamentali che riconosce agli umani stessi. Per non parlare delle specie vegetali, considerate sia nel sentire che dal diritto tali e quali a cose inanimate. Eppure la maggior parte delle società occidentali si professa impegnata a contrastare qualsiasi forma di discriminazione, tanto da aver coniato uno dei concetti più dittatoriali e discriminatori della storia contemporanea: i crimini di odio. Che non riguardano soltanto coloro che praticano o fomentano la violenza (condotte che, di per sé, erano da sempre sanzionate), bensì anche chiunque osi affermare che esistano differenze o diversità tra gruppi. L’invenzione di simili “crimini” dimostra come il rispetto per la diversità sia una mera ostentazione, malcelata attraverso condotte a loro volta gravemente discriminatorie e assolutiste. Quello che si nasconde dietro a tutto ciò non è un aumento del rispetto e della cultura del diverso, ma un passo indietro nella cultura giuridica e del rispetto, l’abdicazione della sostanza alla forma, della finzione alla realtà. Il messaggio, chiarissimo, ma abilmente celato, è: “Non rispettare il diverso. Rispetta il simile. Quindi non rispettare chi non ti somiglia”. A stabilire le somiglianze, poi, ci penseranno i governi e la stampa di turno, e le masse obbediranno.