Le trasformazioni culturali di una società raramente si verificano attraverso una rivoluzione: quando ciò accade, trattandosi di una imposizione violenta e improvvisa, il risultato non può che essere effimero.
Non si può imporre a una intera società di adeguarsi ai valori o alle scelte di pochi, ma si può informarla affinchè essi diventino condivisi e dalla minoranza si arrivi alla maggioranza, determinando così ciò che possiamo definire evoluzione, cioè una trasformazione sentita, voluta e condivisa.
Benchè la cultura improntata al vegetarismo sia sempre esistita, anche nelle società occidentali, è soltanto con l’epoca moderna e le sue aberrazioni che la questione vegana sta diventando sempre più rilevante, non tanto come scelta del singolo, quanto come vero e proprio orientamento culturale.
Ciò che il presente prospetta, con le sue inaudite violenze sui più indifesi, l’interferenza perfino genetica con la natura stessa e la devastazione dell’ecosistema, è soltanto il prodotto apicale di un paradigma del pensiero sbagliato: è proprio l’osservazione dei risultati cui sta portando che ne mette in risalto l’erroneità.
Quella mentalità e quel mondo sono retaggi di ciò che presto sarà soltanto un passato nefasto, che verrà ricordato come la guerra dell’essere umano contro tutto e tutti: dagli altri umani ai non umani, all’ambiente.
Come possiamo confidare in questa evoluzione? Potrei dire per i numeri e le statistiche, che parlano di aumenti quasi esponenziali, raddoppio di anno in anno e comunque crescita costante nell’ultimo decennio. Ma non è sulla statistica che fondo la mia certezza, bensì perché in questi ultimi decenni la cultura vegana ha attraversato i primi due stadi e oggi si trova nel terzo, mentre si osservano sempre più indizi dell’avvento del quarto.
Ogni nuova corrente culturale radicale deve passare attraverso cinque stadi:
I) nel primo è ignorata;
II) nel secondo è schernita;
III) nel terzo è temuta e osteggiata;
IV) nel quarto è riconosciuta;
V) nel quinto diviene predominante.
Soltanto pochi decenni fa in occidente essere vegetariani significava essere isolati e diversi: le ragioni della scelta erano ignote a quasi tutti e le alternative alimentari pressochè assenti.
Nel giro di venti o trenta anni la cultura del vegetarismo si è propagata, tanto che è stato coniato anche il termine “veganismo”: verso la fine del XX secolo quelli che erano così pochi da essere semplicemente ignorati sono divenuti abbastanza da essere socialmente conosciuti.
La prima reazione al “diverso” consiste nello schernirlo, ed è proprio ciò che si è verificato e in parte si sta ancora verificando, mentre si sente sempre più spesso ammettere la pratica vegetariana e dileggiare quella vegana (sarà poi il turno di quella fruttariana, per ora più nel primo che nel secondo stadio).
Il sintomo più evidente che il veganismo si stia affermando è che forze economiche e politiche si mobilitino contro di esso, per cercare di ostacolarlo. È uno scontro impari, poiché tutte le volte che nella storia si è cercato di contrastare “dall’alto” una trasformazione culturale spontanea si è finito soltanto per darle più forza e consapevolezza.
Mentre chi continua a badare soltanto al proprio tornaconto, al profitto, alla fama e al potere, cerca di organizzarsi per ostacolare il cambiamento, c’è anche chi ne ha già preso atto, modificando la produzione e l’offerta di prodotti che sono sempre più diffusi accanto a quelli “tradizionali”.
L’imposizione forzosa e la violenza, nelle parole e nei fatti, non solo non servono, ma possono soltanto rallentare l’inarrestabile processo di veganizzazione dell’occidente: più di ogni altra cosa ciò che lo proietterà verso la quinta e ultima fase è la capacità di informare e di dimostrare, attraverso le più piccole scelte quotidiane, come ciascuno di noi faccia la differenza.