Nerone lo scellerato, il folle, il piromane di Roma.
Gandhi il santo, l’illuminato, il saggio.
Se ci chiedessero di scegliere chi dei due gettare dalla torre, e chi salvare, la domanda sembrerebbe perfino retorica: a morte il dittatore, viva il liberatore!
Ma chi l’ha detto, che Nerone fosse un crudele piromane? La storia (ufficiale). Che, del resto, ci insegna anche tutto su Gandhi. O quasi.
Facciamo un passo indietro: chi decide quale sia la verità ufficiale, cioè quella che verrà poi annoverata come “storia”? I vincitori, e, più in generale, chi detiene il potere.
Non è un motto inusitato, che “La storia la fanno i vincitori”. Eppure conoscerlo non ci esime dall’affidarci costantemente a quella storia, senza remore. Senza dubbi. Acriticamente. Ripercorrendo le fonti, e sorvolando sul folklore popolare, si compiono scoperte insospettabili.
Nerone, educato dal filosofo Seneca, fu un imperatore illuminato e riformatore, che potè annoverare tra le proprie scelte politiche quali:
– la riforma monetaria che privilegiava il denarius (la moneta di cui si serviva la plebe urbana), rispetto all’aureus (la moneta usata dai ceti agiati);
– l’abolizione di alcune procedure segrete all’interno dei processi;
– la fissazione di limiti ai compensi degli avvocati;
– la possibilità di intraprendere procedimenti giudiziari a carico dell’erario;
– un progetto di riforma fiscale volto ad abolire i dazi doganali interni (dannoso per i grandi proprietari terrieri, vantaggioso per i meno abbienti);
– chiuse le porte del tempio di Giano (dio della guerra) e interruppe le invasioni militari;
– incoraggiò le arti e l’atletica.
Ma tutte quelle riforme e idee contrastavano con la classe politica ed economica dominante, che, a sua volta, era anche quella cui appartenevano i letterati, cioè coloro che tramandavano la storia (Svetonio e Tacito, su tutti). Mentre l’imperatore andava favorendo il popolo, i ricchi iniziarono a compiere ciò cui la quotidianità ci ha abituati, attraverso stampa e televisioni di parte, che non fanno altro se non infangare gli oppositori, spesso creando, amplificando o trasformando dettagli e storie, a partire dalle vite private, cioè da quello che, non essendo noto direttamente al pubblico, può essere facilmente riferito senza poter essere altrettanto agevolmente smentito.
Ecco dunque nascere il mito dell’imperatore dalla vita sessuale sfrenata, dedito ai vizi e folle. E, del resto, non sono forse tutti folli, i sognatori, e gli esponenti delle avanguardie di pensiero?
E l’incendio, allora? E le persecuzioni ai cristiani come capri espiatori?
Ebbene, Nerone, che fisicamente neppure si trovava a Roma al momento dell’incendio, bensì ad Anzio, tornò subito nella capitale per partecipare personalmente alle operazioni di soccorso e spegnimento dell’incendio, ospitò gli sfollati nella sua residenza imperiale e finanziò parte delle ricostruzioni con il proprio patrimonio.
Dopo l’incendio Roma non fu ricostruita soltanto più bella, ma anche con l’adozione di criteri preventivi voluti da Nerone, quali distanze minime, materiali resistenti al fuoco e predisposizione di fontane a intervalli regolari. E, soprattutto, contrastando il fenomeno che oggi definiremmo “abusivismo edilizio”, che era stato fra le cause principali dell’incendio, o, perlomeno, dei danni che ne scaturirono. E non perseguitò i cristiani per l’incendio.
Nerone non fu un santo, e non fu certo esente dagli eccessi. Fu, in parte, uomo del suo tempo, e, in parte, spirito sensibile e innovatore: queste sue ultime due prerogative gli valsero il proclama di hostis publicus, la destituzione, e, infine, la damnatio memoriae senatoria.
Ciò per cui il ricordo di Nerone fu screditato è quanto, oggi, lo avrebbe fatto assurgere a illuminato governante: purtroppo, però, qualunque politico di quel tipo è inesorabilmente condannato ad essere contrastato dal sistema dominante coevo.
E veniamo quindi a Gandhi. Un altro politico, benchè nell’immaginario collettivo rappresenti senza alcun dubbio una figura di guida spirituale. Eppure Gandhi fu un avvocato, prima, e un politico, poi.
Mahatma. Grande anima. Pacifista, riformatore nonviolento che aveva fatto voto di povertà e di astensione dal sesso.
Ripercorriamo dunque le tappe salienti del percorso politico e umano di Gandhi.
Nel 1893 l’avvocato indiano si reca in Africa del Sud, lavorando presso commercianti lì stabiliti. In quello stesso anno si verifica l’episodio (“provvida sventura”, l’avrebbe probabilmente definita Manzoni) che avrebbe innescato il desiderio di ribellione di Gandhi: l’allontanamento dal posto in prima classe sul treno, per via del suo colore. Questo episodio, più precisamente, non rappresentò la presa di coscienza di un problema razziale, bensì il turbamento di un avvocato appartenente alla casta benestante (Bania), che si era visto equiparare al trattamento riservato agli indiani che affollavano quel paese come minatori. Tanto è vero che non solo Gandhi non cercò di abolire le caste, ma, al contrario, ebbe modo di dichiarare che proprio quel sistema aveva garantito l’elevazione della nazione indiana, a differenza delle società occidentali. Per questo motivo venne spesso contestato dai Dalit, cui pure si rivolse dopo averne constatato l’essenzialità ai fini politici.
Ma torniamo al Sud Africa. Qui Gandhi, dalle pagine del giornale Indian Opinion (fondato nel 1904), tuonava: “La nostra è una continua lotta contro il degrado che ci viene inflitta dagli europei, che desiderano degradarci al livello del crudo Kaffir, la cui occupazione è la caccia e la cui unica ambizione è di raccogliere un certo numero di bovini per comprare una moglie, e poi passare la loro vita in indolenza e nudità”. Kaffir è ciò che oggi definiremmo “insulto razziale” (come tale, legalmente perseguito in Sud Africa dal 1976), utilizzato per descrivere la popolazione nera del Sud Africa, cui peraltro Gandhi in varie occasioni rivolse apprezzamenti negativi (“barbari e inutili”). Nella rivolta degli Zulu contro gli inglesi del 1906 Gandhi si schierò a favore di questi ultimi, affermando che la popolazione indiana lì residente avrebbe dovuto arruolarsi tra le fila inglesi per aiutare a reprimere l’insurrezione.
In occasione dell’esecuzione del rivoluzionario indiano Bhagat Singh, Gandhi disse “avrei potuto fare della commutazione della pena uno dei termini dell’accordo. Non si sarebbe potuto fare. Il comitato di lavoro ha concordato con me che non si potesse inserire come condizione propedeutica all’accordo la conversione della pena”. E, dunque, scrisse al Vicerè: “se i ragazzi dovessero essere impiccati, sarebbe meglio impiccarli prima della sessione del Congresso (Karachi), piuttosto che dopo”.
Nel 1932 Gandhi intraprese uno sciopero della fame passato alla storia come forma di protesta non violenta a favore dell’abolizione del sistema delle caste. In realtà, ciò che Gandhi fece fu impedire l’attribuzione di una rappresentanza parlamentare autonoma ai Dalit (gli intoccabili), che avrebbe diminuito la rilevanza politica del suo movimento e favorito quella dell’esponente Dalit, Ambedkar.
Nel frattempo, se in pubblico promuoveva la non violenza, in privato manifestava gelosia ossessiva nei confronti della moglie, arrivando a schiaffeggiarla e a “insegnarle la lezione” lasciandola a guardare le proprie lacrime, dopo le percosse. A proposito del comportamento violento e possessivo nei confronti dei propri famigliari, Harilal, figlio di Gandhi, scrisse che questi li trattava “proprio come l’addestratore da circo tratta gli animali sotto la sua responsabilità”.
Nel frattempo, benchè riservasse simili comportamenti possessivi verso la moglie, tuttora si discute se avesse o meno una relazione con l’architetto tedesco Hermann Kallenbach, la cui intensa corrispondenza è stata recentemente acquistata all’asta dal governo indiano. Certo è che nel suo ashram si accompagnava e dormiva con ragazze, rigorosamente nude e giovanissime, compresa la moglie del nipote, dichiarando di essere solito utilizzare tali “ancelle” per mettere alla prova il proprio voto di celibato, anche attraverso varie pratiche, volte a provocarlo sessualmente.
Insomma, un Nerone pacifista e un Gandhi razzista. Chi buttare giù dalla torre? Forse, adesso, la risposta non sarebbe più altrettanto scontata.
Quali riflessioni possiamo ricavare da tutto quanto sopra? Molte.
La prima è che tutto ciò che sappiamo, nulla escluso, deve essere assoggettato al vaglio critico, o, perlomeno, non se ne può dare per scontata la verità o la esattezza.
La seconda è che non esistono santi, ma neppure occorrono santi. E non occorrono idoli, né modelli, né guide. Al tempo stesso, di chiunque si possono prendere in considerazione pensieri e azioni, e anche ispirarvisi, senza però la necessità di inserire nella categoria dei “buoni” o dei “cattivi” alcuno.
Si può e si deve scindere ciò che c’è di “buono” da ciò che c’è di “cattivo” in ogni persona e in ogni situazione (uso le virgolette, poiché le categorie stesse di “buono” e “cattivo” sono illusorie, e non sottendono realmente le differenze che noi vi riconduciamo).
Al tempo stesso, delegare ad altri (a chiunque) le responsabilità che ricadono esclusivamente su di noi è un atto dannoso, che rimanda anziché consentire il processo di consapevolezza.
Del resto, anche riguardo alla politica, il fatto stesso che qualcuno intenda presentarsi come guida di altri denota da parte sua scarsa consapevolezza, e quindi implicitamente l’impossibilità che costui sia ciò che qualcuno sceglie di vederci (una guida, in generale).