ALIENAZIONE CONSUMISTICA

 

alienation

Questo articolo nasce da un’esigenza, quella di informare e stimolare una riflessione critica sui nostri gesti quotidiani: per quale motivo sforzarsi di cambiare ciò che non si può cambiare – cioè la testa altrui – quando si può produrre un cambiamento in se stessi?

Vedremo come la questione economica, che normalmente è l’unica che si considera attinente alla quantità dei consumi, rappresenti soltanto la punta di un iceberg, la cui parte più estesa – come in ogni iceberg che si rispetti – si trova sotto la superficie.

 In particolare l’esigenza di riflessione verte su una questione specifica, cioè l’alienazione determinata e sottesa al consumismo: da dove provengono i “beni di consumo”? Come sono fatti? Da chi sono fatti? Quali sono le conseguenze della loro produzione?

Guardiamoci per un attimo attorno e pensiamo a ciò che ci turba: l’inquinamento, il traffico, la devastazione ambientale. Le soluzioni “ufficiali”? Usare meno l’automobile e gli elettrodomestici.

Ma queste non sono soluzioni: avrebbero potuto esserlo 200 anni fa. Oggi ciò rappresenta una banale e talora strumentale rassicurazione: compra l’auto ma usala poco… sostituiscila spesso perché sia più “eco”… compra elettrodomestici nuovi, che consumino meno… spegni il led della tv che assorbe 0,003 watt e convinciti di aver salvato il pianeta!

E tutte queste suggestioni spesso funzionano: le persone acquistano in continuazione nuove automobili, e se non lo fanno non è certamente per la paura di inquinare, bensì – semmai – per risparmiare.

Qualcuno si è preoccupato di calcolare quanto sia l’impatto nella costruzione di un’automobile e il risultato è che un’auto ibrida, appena uscita di fabbrica, ha già un bilancio energetico pari al consumo di carburante di un’auto a benzina che ha percorso circa 80.000 km.

C’è chi lotta per i diritti umani o per quelli degli animali non umani, o perfino per l’ambiente, e non vede alcun collegamento tra questi problemi e il consumismo, che magari pratica e promuove inseguendo l’ultimo modello di cellulare o la collezione infinita di scarpe, o, semplicemente, adoperando quella serie infinita di prodotti usa e getta che servono all’industria per arricchirsi, danneggiando l’ambiente e schiavizzando le persone.

Ci circondiamo di oggetti di plastica che avranno brevissima utilità, ma esisteranno per secoli o millenni, ben dopo la scomparsa della nostra civiltà; quegli stessi oggetti li facciamo viaggiare attraverso tutto il globo, per passare da produttori a venditori a consumatori… e poi ci lamentiamo dei camion che affollano le strade, delle petroliere che avvelenano i mari, delle industrie che inquinano l’aria, l’acqua e la terra.

Ci illudiamo di essere amanti degli animali (non umani) salvando un cane dalla strada, ma promuoviamo un mondo di asfalto e industrie che priva chiunque di un ambiente in cui vivere.

Insegniamo ai nostri figli a distruggere tutto ciò che ostacola i loro piaceri: gli alberi per costruire case e strade, gli animali per sentirsi al sicuro o puliti, gli insetti per non esserne infastiditi, i batteri per non ammalarsi, e perfino le sostanze di cui dovremmo nutrirci, contenute nel cibo e distrutte dalla cottura.

La spinta ai consumi, volta a saturare qualsiasi domanda, e crearne di nuove, non si ferma dinanzi a nulla, e, anzi, trova mercato anche nel danneggiamento dell’ambiente e dei suoi occupanti, costretti poi a ricercare strumenti per rimediare ai danni causati.

Viviamo in un mondo in cui fanno paura i batteri, naturali abitanti del pianeta e promotori della vita, mentre si prova rassicurazione davanti allo schermo artificiale di un computer: vogliamo un mondo asettico, in cui tutto sia controllato e ordinato in base alla volontà dei consumatori. Vogliamo frutti grandi, belli e senza semi, case “ordinate”, “pulite” e splendenti, abiti sgargianti e sempre perfetti, puliti e nuovi, trasporti rapidi, case caldissime d’inverno e freddissime d’estate, pillole per toglierci qualsiasi male, dal mal di testa al mal di vivere.

Puntiamo i piedi e ci imbronciamo, come bambini, contro i politici che non ci garantiscono di poter essere sempre più schiavi del lavoro e dei consumi, mentre quelli che provano a dirci di moderarci li ignoriamo del tutto: non è ciò che vogliamo sentirci dire.

Non vogliamo sentirci dire che non ci può essere giustizia sociale né rispetto per le persone, gli animali o l’ambiente, senza cambiare noi stessi e le nostre esigenze: non riusciamo a mettere a fuoco i nostri stessi pensieri e a distinguere ciò che realmente ci occorre da ciò che ci siamo convinti occorrerci.

Ci sembra che tutto sia giusto così poiché viviamo immersi in una realtà ipocrita e ottusa che non sa o non vuole additare i veri responsabili (noi), e quindi offre facili capri espiatori, dal politico di turno al comportamento falsamente consapevole, come il “consumo responsabile”.

Ma il consumismo responsabile non può esistere, poiché se esiste qualcuno che ha per obiettivo esclusivo l’arricchimento, da qualche parte dovrà corrispondere un depauperamento, in termini ambientali, di risorse, ed economici.

L’attività industriale rappresenta per definizione e natura il primo e fondamentale atto irrispettoso dei diritti e delle esistenze di tutti, proprio poiché coinvolge tutti, sia quelli che vi ricorrono che gli altri, spostando continuamente risorse, materie e denaro da molti luoghi in un luogo solo: dai minori sfruttati in asia alle terre devastate in Africa, ai consumatori resi dipendenti in occidente, tutto è finalizzato a produrre ritorno a vantaggio di un solo operatore.

Tutto è facile, poiché non ci coinvolge, non lo vediamo, è quasi come se fosse virtuale: sappiamo vagamente che la bistecca nel piatto non è nata bistecca, ma ci fa comodo pensare che l’uccisione sistematica di creature senzienti sia doverosa e svolta secondo criteri di “rispetto”, quindi rendiamo proficua l’attività dei carnefici.

Acquistiamo ogni anno il nuovo pezzo di plastica con il frutto morsicato, che viene promosso come la panacea dei nostri mali e il nuovo collante sociale, poi ce lo portiamo quando scappiamo dalle città grigie per poter mostrare ai nostri amici fotografie e video dai (sempre più sparuti) paradisi esotici, onde dimostrare quanto siamo fortunati a poter fuggire da quella civiltà industriale che ha prodotto il nostro oggettino.

Rabbrividiamo se le piante nel nostro giardino crescono diversamente da come ci paiono più eleganti o meglio sfruttabili, però poi scappiamo a cercare la natura “selvaggia”.

Usiamo saponi, detersivi, detergenti, deodoranti, antibatterici, perché ci hanno insegnato che naturale è sporco, quindi male: per noi buttare la buccia di un frutto in un prato non è qualcosa di naturale a completamento di un circolo virtuoso, ma un atto quasi terroristico e rivoluzionario, idoneo a minare le fondamenta della convivenza sociale e civile.

Tutto, anche la natura di cui ci circondiamo, diventa bene di consumo: mettiamo e togliamo piante come vogliamo, e le gestiamo come macchine che devono stare negli spazi e nei modi per i quali “servono”, ma quando non servono più, prevale la regola dell’usa e getta.

Ecco dunque che le nostre esigenze vitali non sono più un ambiente non inquinato, cibo sano, rapporti sociali appaganti e tempo da dedicare a noi stessi e ai nostri cari, bensì luoghi artificiali (case), sterilizzati perfino della vita batterica ma considerati salubri in quanto pieni di sostanze di sintesi, veicoli più da ostentazione che da trasporto, soldi con cui misurare la nostra realizzazione in confronto agli altri, e lavoro onnipresente e prevalente su qualsiasi altra cosa, per poter donare a noi e ai nostri cari un futuro “migliore”.

Certo, non importa se i nostri figli saranno consumatori alienati il cui scopo principale nella vita sarà lavorare per tutta la sua durata al fine di arricchire altri: l’importante è che siano sereni e appagati, che continuino a considerare minacce alla loro serenità la natura, gli insetti e gli animali non umani, convincendosi che spegnere la lucina a led nel televisore rappresenti il più grande atto per salvaguardare il mondo e se stessi.