L’ILLUSIONE DEL TEMPO (E DELLA MORTE)

 

È cosa ormai nota che il nostro mondo (con “mondo” intendo tutto l’universo) è caratterizzato da uno specifico numero di dimensioni: nelle teorie fisiche degli universi multipli si dibatte non soltanto del loro numero, origine/fine, interazioni, bensì anche della quantità di dimensioni che li caratterizzerebbero.

Sappiamo anche che il tempo rappresenta una dimensione della realtà, al pari delle altre: è per questo motivo che, così come percepiamo lo spostamento nello spazio, siamo anche in grado di accorgerci di quello nel tempo.

Uno dei problemi principali del rapportarsi con realtà caratterizzate da un numero di dimensioni superiore al nostro è la raffigurazione mentale di esse: si tratta di un esercizio tutt’altro che semplice, poiché presuppone la capacità di visualizzare qualcosa che non è quantitativamente differente da ciò cui siamo abituati, bensì qualitativamente.

Flatland, di Edwin A. Abbott, è un racconto affascinante che ci permette di intuire attraverso un paragone il nostro limite nell’immaginare altre dimensioni: in quella “terra piatta”, infatti, esistono soltanto due dimensioni e allorchè vi si introduce una sfera, i poligoni che lì abitano non sono in grado di riconoscerla come tale, ma riescono ugualmente a “intuire” la sua diversità notando le deformazioni conseguenti al movimento.

La questione del tempo, tuttavia, rappresenta il caso inverso, poiché stavolta la nostra capacità di astrazione è messa alla prova non già dall’aggiunta di una dimensione, bensì dalla sua sottrazione: gli studi compiuti da Weiss, Goldberg, Malanga e moltissimi altri scienziati, hanno dimostrato come il tempo sia una prerogativa del mondo materiale.

Fuori dalla densità della materia non esiste tempo: è per questo motivo che oltre ai ricordi di vite passate è stato possibile accedere a quelli di vite future.

Anche la fisica sta avvicinandosi sempre più velocemente alla comprensione di questi fenomeni: il fisico inglese Julian Barbour è arrivato a negare l’esistenza del tempo nella successione che gli attribuiamo, affermando che esso sia in verità contraddistinto da una serie di “adesso”, cioè una sorta di eterno presente privo di futuro e di passato.

Teorie fisiche e ricerche empiriche si congiungono nella definizione della cosiddetta quinta dimensione: quel luogo letteralmente “senza tempo” (in quanto fuori di esso), in cui non c’è vita nel senso biologico del termine, bensì esistenza in quello filosofico.

La constatazione più ovvia è che in un universo privo della dimensione temporale non esiste creazione, quindi non esiste morte.

Parafrasando Parmenide, essere è soltanto ciò che è, mentre, rammentando Plotino, possiamo concludere che il mondo fenomenico rappresenta il non essere, in quanto regno di divisione e contrapposizione.

Ma la divisione è soltanto apparenza, e dunque il mondo materiale non può che essere simulazione, e così il tempo, che lo contraddistingue, e tutto ciò che ne deriva, fra cui la morte.

Che tutto scorra non è falso, bensì semplicemente illusorio: è vero che tutto cambia, ma soltanto nell’universo caratterizzato dalla coordinata tempo.

Ovviamente se non esiste morte non può esistere neppure vita, come opposto di qualcosa che non è.

La dimensione dell’essere (o anima), cioè quella reale, in quanto atemporale è incorruttibile e priva del concetto di “divenire”: da ciò deriva il senso e lo scopo dell’esperienza transeunte che definiamo “vita” e che trova la sua finalizzazione nella “morte”.

Purtroppo (o per fortuna), la consapevolezza dell’essere non consente di sminuire o privare di senso l’esperienza materiale: essa, anzi, viene valorizzata dalla sua natura necessaria, quale fonte di apprendimento.

Insomma, il modo migliore per coltivare questa esperienza è senz’altro quello di apprendere e trasmettere quanto più possibile, senza lasciarsi distogliere dalla paura dell’ignoto e di una fine che tale non è.