Quanti torti abbiamo subito nella vita? Quante persone crediamo che ci abbiano tolto qualcosa, o che ci abbiano danneggiato ingiustamente? Quanti incolpiamo dei nostri problemi? Quanto ci crogioliamo nella speranza di restituire il male ricevuto?
La vendetta è l’opposto del perdono: riuscire a causare al nostro carnefice lo stesso dolore che abbiamo patito, o, possibilmente, ancor di più, ci fa sentire bene tanto da cullare con grande accanimento anche solo il progetto di vendicarci.
Il desiderio di rivalsa cos’altro è, se non un laccio che ci lega indissolubilmente a chi ci ha fatto del male?
L’etimologia del termine perdono riporta al vocabolo latino dono, che, proprio come in italiano, significa donare: ciò fa riferimento all’elargizione da parte del (per)donante nei confronti del perdonato. Purtroppo in questo equivoco continuiamo a caderci tuttora: basti pensare alla tipica espressione “quella persona non è degna del mio perdono”, oppure “il perdono bisogna meritarselo”. Queste frasi, benché non prive di un certo effetto, ci inducono a perpetuare la concezione del perdono come un bene, una grazia o regalia, destinato a chi ci ha causato sofferenza. Ma è vero il contrario: il primo beneficiario del perdono è esattamente colui che lo elargisce.
Il nostro sbaglio è di concepire questa decisione come un beneficio reso ad altri, e di non accorgerci che nella nostra incapacità di perdonare non facciamo altro se non danneggiare noi stessi, ravvivando costantemente gli effetti deleteri che magari originariamente erano derivati da azioni altrui, ma che senza la nostra opera quotidiana si sarebbero estinti.
Gli effetti del perdono nei confronti dei nostri carnefici (o presunti tali) sono un aspetto ulteriore e differente, che potrebbe addirittura non interessarci, poiché è del tutto irrilevante rispetto al fatto che noi stiamo bene o male, che siamo liberi o prigionieri.
Il rancore è una prigione della quale siamo sia artefici che vittime. Ma se anche concepissimo chi ci ha fatti soffrire come nostro carceriere, non accorgendoci che non è stata la sua azione iniziale e passata a procurarci il male presente e cronico, bensì la nostra reazione, come potrebbe un prigioniero pensare che evadere dalla prigione rappresenti un beneficio per il suo carceriere anziché per egli stesso? Ecco dunque che, quando affermiamo di non ritenere qualcuno meritevole del nostro perdono, stiamo confondendo carceriere e detenuto.
Il perdono è prima di tutto la chiave per uscire dalla gabbia in cui noi stessi ci siamo infilati, e dunque cosa importa quale effetto ciò avrà su qualcun altro, se siamo in grado di comprendere che il beneficio è tutto nostro?
Una volta compresi i fatti più elementari attorno al concetto di perdono dovrebbe esserci chiaro anche tutto il resto: non esiste nessuno che non ne sia degno, salvo che detestiamo noi stessi a tal punto da volerci imprigionare nel circolo vizioso del rancore e della vendetta.
C’è stato un signore inglese, di nome Eric Lomax, che per una curiosa coincidenza (?) era nato nel mio stesso giorno, il quale durante la seconda guerra mondiale fu catturato dai giapponesi e lungamente torturato da uno di loro, Takashi Nagase. Dopo alcuni decenni, trascorsi ad alimentare il desiderio di vendetta, Lomax decise di passare ai fatti, avendo rintracciato il suo aguzzino; soltanto che di fronte a quella persona, consumata dai sensi di colpa, accadde una cosa incredibile: il desiderio di vendetta fu sostituito dal perdono, e i due diventarono amici. Se una storia del genere per noi è straordinaria, significa che come società o individui abbiamo ancora molto su cui riflettere: non c’è alcun “misfatto” che non possa essere perdonato, prima di tutto per la semplice ragione che non esiste forma di rancore capace di svincolarci dalle conseguenze nefaste delle azioni altrui.
Se è vero che i destinatari ultimi ed effettivi del (per)dono siamo proprio noi, allora dovremmo imparare a capovolgere il quesito, domandandoci: “Siamo degni del perdono?”.
Naturalmente riconoscere l’effetto primario di perdonare non sminuisce quello secondario, nei confronti del destinatario: così come il male produce circoli viziosi, il bene genera circoli virtuosi. Probabilmente la nostra percezione di noi, come staccati dagli altri, ci impedisce di comprendere realmente che, al di là delle apparenze, non esiste qualcosa che sia bene per uno e male per l’altro, e viceversa: ciò che è mosso da bene è bene assoluto, ciò che è mosso dal male è male assoluto.