Il principio di solidarietà espresso dalla nostra società, a un esame superficiale, può apparire come un sintomo inequivocabile di evoluzione, e uno dei suoi più ammirevoli prodotti. E se, invece, fosse semplicemente una deriva semplicistica e illusoria? Cerchiamo di analizzare meglio la questione.
Da tempo immemore l’umanità ha iniziato a coltivare l’ideale del “salvataggio”, cioè di uno o più individui che avrebbero il potere/dovere di salvarne altri: dalla fin troppo scontata figura di Gesù, alle guerre “preventive” abbiamo una quantità sterminata di questi esempi, che oggi si ripropongono facilmente perfino nella politica e nelle leggi.
Prima ancora di entrare nel merito, domandandoci se e come sia possibile un salvataggio, dovremmo iniziare chiedendoci: “Esiste qualcosa da cui salvare qualcuno?”. La domanda, che a un certo livello potrebbe apparire talmente scontata da essere addirittura provocatoria, è invece assai profonda, poiché presuppone di aver affrontato la questione del senso ultimo dell’esperienza terrena. C’è chi concepisce malattie, morte, sofferenza e simili come meri problemi o “sfortune”, e chi, al contrario, vi ravvisa precise esigenze evolutive. Pur non soffermandoci lungamente sulla questione, possiamo però senz’altro affermare che la concezione di “male” come mezzo per conseguire una maggiore consapevolezza vanifica a priori il concetto stesso di salvataggio. Se, per esempio, io aiuto qualcuno all’esame consegnandogli la soluzione, ovviamente lo aiuto a superarlo ma non a conseguire la preparazione, di cui l’esame stesso era soltanto l’occasione di verifica. Ecco, in tal senso, privare qualcuno di una malattia che – per esempio – rappresenta il suo metodo per evolvere nella consapevolezza, significa addirittura danneggiarlo a livello profondo, benché superficialmente si possa credere di averlo aiutato.
Fingendo di aver superato la prima e fondamentale questione circa la sussistenza stessa di “mali” da cui essere salvati, possiamo porci il secondo quesito: esiste qualcosa come un dovere, che possa obbligare alcuno a intervenire per qualcun altro? Se così fosse, la responsabilità individuale sarebbe disconosciuta, e, una volta fatto ciò, gli effetti sarebbero a doppio senso. Cioè, si dovrebbe riconoscere una legittimazione a interferire con le esistenze altrui in via generale, prima di affermare la legittimazione specifica a farlo “per motivi di bene”, anche perché spesso il concetto di “bene” differisce ampiamente tra individuo e individuo. Ma il principio di libero arbitrio e quello di responsabilità personale impediscono di concepire qualcosa come un “dovere” altrui di sostituirsi o di interferire con le esistenze altrui: se così fosse, cioè se esistesse un dovere ben preciso, allora di potrebbe concludere che ognuno sarebbe esentato dal provvedere o dal decidere e disporre di sé, in ragione dell’obbligo altrui di soccorrerlo in determinate circostanze. Questo lascerebbe spazio a qualsiasi arbitrio. Se, cioè, la mia idea di “bene” è convertire alla mia religione intere popolazioni, evidentemente mi riterrò legittimato a farlo con ogni mezzo (o potenzialmente con svariati mezzi).
Ecco, dunque, che la nostra presunzione di “dover” intervenire procurando il (presunto) bene o la (presunta) salvezza altrui ci spinge ad azioni di qualsiasi tipo, che spesso determinano inoltre la formulazione di una scala di valori o di interessi, in base a cui scegliere quale sacrificare a quale altro.
Ma quella ottenuta in questi modi è vera salvezza? Ancora una volta, torniamo al discorso sul senso dell’esistenza.
Purtroppo la storia ci ha insegnato, e il presente ci sta drammaticamente insegnando, che la presunzione di dover salvare giustifica qualsiasi angheria, prepotenza, dittatura, imposizione, guerra, aggressione, etc.
Ci agitiamo terribilmente per ergerci a salvatori, o per trovare salvatori, ma non riusciamo a comprendere il bene più importante è proprio quello che, in tal modo, disconosciamo, cioè il percorso individuale di consapevolezza. Percorso che non può essere imposto, ma soltanto scelto liberamente.
La verità, a ben vedere, è che la maggior parte dei mali del mondo deriva dal fatto che si sia violato il principio di non interferenza: dall’istituzione del concetto di proprietà privata, fino alle moderne guerre preventive, tutto ruota attorno alla presunzione di uno o di alcuni di poter disporre di altro o di altri. Da qui l’effetto a catena è inevitabile: diamo sempre più spazio a illusioni quali religioni, politica, presunte guide spirituali o morali, confidando che possano risolvere i nostri problemi come società e come individui, senza accorgerci di essere gli unici portatori di simili poteri.
Ecco, dunque, come la “società del salvataggio” incarna la deriva del principio di auspicare una giusta solidarietà nei confronti dei bisognosi a quello di imporre un concetto assoluto e presuntuoso di dovere di intervento, e quindi di interferenza, nelle esistenze altrui. Concetto avallato e confortato dalla affermazione di una mentalità stereotipata, facile preda di manipolazioni, in cui chi si professa portatore di salvezza trae legittimazione popolare nelle proprie azioni, anche a scapito degli stessi che ne sono destinatari.
Il principio di interventismo di cui siamo ormai imbevuti dovrebbe lasciare spazio al concetto di responsabilità individuale e a quello di non interferenza, mentre noi, come singoli, dovremmo imparare ad essere guide di noi stessi, senza pretendere di esserlo di altri, ma anche senza ricercarlo in altri. Soltanto così potremo progredire dall’età dei salvatori a quella dei… salvati.