I fatti qui narrati si sono svolti alcuni secoli fa in un regno orientale, e sono accaduti realmente.
Un ricco commerciante aveva acquisito tanto potere da governare di fatto sulla città in cui viveva, e che dipendeva da lui perfino per l’amministrazione della giustizia. Il potere andava di pari passo con la solitudine, e infatti questi, benchè ormai non fosse più un fanciullo né un ragazzo, era completamente solo. Alla fine della sua giornata, spariti tutti i “sudditi”, suoi concittadini, il ricco restava solo nel silenzio del suo palazzo.
Con il tempo, la solitudine e la crescente pressione, derivante dalle numerose responsabilità che gravavano su di lui, divennero sempre più insopportabili, al punto che il commerciante iniziò a coltivare un’abitudine assai particolare: egli era uso recarsi al piano inferiore del proprio palazzo, nei sotterranei, e qui sdraiarsi su un tavolo di legno per non sentire le voci delle persone e per non essere raggiunto dalle loro continue richieste.
L’enorme ricchezza non soltanto non riusciva ad attenuare il malessere del mercante, ma pareva anzi esserne la causa principale, con tutta l’ansia che quella posizione, dall’esterno tanto ambita, portava fatalmente con sé: nell’espletare le sue funzioni pubbliche il ricco sedeva su una poltrona che aveva fatto appositamente realizzare con tutte le fattezze di un vero e proprio trono. In quella comunità lui era il più potente, il più danaroso, il più riverito. Eppure era infelice. Al punto che l’unica ambizione che gli era rimasta non erano né altri soldi, né più averi, e neppure il calore umano, bensì soltanto il silenzio di quella cantina e la solitudine.
Ben presto però neppure quei sotterranei del palazzo furono più sufficienti al mercante, che pur avendo apparentemente tutto aveva ormai realizzato di non avere niente, se non l’assillo del potere che lui stesso aveva accumulato e un profondo desiderio di scappare da esso.
Venne un giorno in cui il ricco abbandonò la vita che aveva vissuto fino ad allora, e tutti gli averi che aveva accumulato, e ogni responsabilità che gli era derivata dal potere: decise di divenire un monaco eremita e di partire alla ricerca di Dio.
Memore del male che gli era derivato dall’enorme ricchezza accumulata, il monaco assunse una modesta veste e intagliò con le proprie mani scomodi zoccoli di legno che gli sarebbero serviti più come forma di sacrificio nella ricerca della santità, che non come calzari.
Il monaco errante intraprese il suo percorso, e così seguì il corso dei fiumi, si addentrò nelle foreste più fitte, camminò per campi sterminati, si arrampicò sulle montagne.
Il viaggio durò quasi vent’anni, durante i quali il monaco vide moltissimi luoghi, incontrò anche molte persone, pur rimanendo solitario ed errante sulla strada che l’avrebbe portato a scoprire Dio.
Alla fine del percorso il vecchio monaco giunse al mare, e qui, sentendo ormai incombere su di sé il momento fatale, ripensò al suo lungo viaggio ma si rese conto che per quanti luoghi avesse visitato, non era mai arrivato in alcun posto; perlomeno non aveva raggiunto alcuna destinazione. Aveva cercato Dio in ogni posto, ma non aveva mai guardato dentro se stesso e così il vuoto la solitudine che l’avevano accompagnato come ricco e potente mercante erano stati anche inesorabili compagni del suo viaggio come monaco errante.
Intravvedendo il mare attraverso gli occhi ammalati di un vecchio stanco, il monaco capì che perfino la ricerca di Dio era stata in realtà una scusa per cercare di dare senso ad una vita di cui egli non era riuscito a trovarne alcuno, poiché non aveva avuto il coraggio di cercare nell’unico posto possibile: dentro di sé.
Un ultimo sguardo al sole che si rifletteva nel mare, maestosa bellezza della natura quasi perfida nel contrapporsi alla desolazione di quell’anima. Poi solo il silenzio.