LA SCELTA VEGANA È SUPEREROGATORIA?

Anche fa quelli che abbracciano la scelta vegana si registrano spesso dubbi o idee differenti: alcuni la considerano una libera scelta rimessa all’apprezzamento individuale, mentre altri la considerano l’adempimento di un dovere. C’è chi ritiene l’astensione dall’uso di animali non umani a scopo alimentare l’apice di una serie di condotte di matrice animalista, e chi, all’opposto, la ritiene il fondamento minimo necessario.

Io ritengo che collegare la scelta vegana all’animalismo in modo assoluto sia sbagliato e frutto di un equivoco concettuale: il semplice fatto di non massacrare altri esseri umani ci rende forse filantropi o attivisti dei diritti umani? Chiaramente no.

Come si può affermare che la stessa astensione dalla violenza, se rivolta nei confronti degli animali non umani, implichi automaticamente che chi la pratica sia un animalista?

Non si può esigere che tutti amino altri esseri umani o pratichino il volontariato nei loro confronti, ma si può esigere che si astengano dal danneggiarli, in applicazione del principio etico e giuridico del neminem laedere.

Se il principio è noto e codificato anche attraverso le leggi, rimane controversa l’estensione del suo ambito di applicazione: chi è l’”altro” da non danneggiare? Storicamente si è inteso l’uomo, il nobile, il padrone, il cittadino, l’essere umano, etc.

L’istanza dell’Eusebismo è di estendere il novero degli “altri” inclusi nel principio di non danneggiamento, fino a ricomprendervi tutti gli enti e non soltanto quelli che, di volta in volta, a causa di pregiudizi, limitazioni percettive, similitudine o preferenze, l’osservatore è incline a riconoscere.

Dunque non occorre “convincere” nessuno ad “amare” (qualsiasi cosa con questo termine si intenda) gli animali, umani o non umani: è sufficiente che ciascuno ottemperi al proprio dovere di rispetto, sul quale si fonda la coesistenza sociale e ambientale.

Nell’ambito della morale si può distinguere tra azioni positive, neutre e negative: la semplice astensione dal danneggiare altri non si colloca fra le azioni positive, poiché di per sé non reca né bene né male; neppure si può considerare la rinuncia a provocare il male altrui come un’azione supererogatoria.

Ciò che fa apparire la scelta vegana come supererogatoria, dunque, non è un principio morale, bensì un fenomeno culturale e psicologico: poiché la società occidentale considera l’uso a scopo alimentare di animali non umani qualcosa di naturale/necessario, allora chi si sottrae a questa normalità/necessità può essere considerato (o considerare se stesso) autore di un’azione moralmente positiva.

In effetti sotto il profilo psicologico e culturale sottrarsi all’influenza dei più rappresenta un atto tutt’altro che irrilevante e carico di implicazioni; tuttavia sotto il profilo morale, considerato che il numero di consociati che compiono azioni deteriori non modifica la valenza di un atto, si deve concludere che la scelta vegana risulta sempre e comunque un’azione moralmente neutra, in quanto adempimento di un dovere.

Anche nei confronti degli animali non umani l’azione dannosa risulta collocata al livello inferiore di quella neutra, ed è pertanto negativa e non condivisibile né attuabile: nessuno si può considerare legittimato a porla in essere.

Al di sopra delle azioni moralmente neutre si collocano quelle positive, cioè condotte che producono un aumento del benessere, di uno o di molti, o un miglioramento delle interazioni e dell’esplicazione di sé.

In conclusione non si può affermare che una condotta difforme da un dovere morale rappresenti una scelta accettabile e liberamente praticabile, poiché perseguendola si interferirebbe, danneggiandolo, con il diritto di altri.

Neppure si può definire meramente alimentare la questione sottesa all’uso di animali come cibo: si tratta, al contrario, dell’estrinsecazione pratica di un precetto morale.