Da tempo immemore fra le società occidentali si è andata diffondendo la convinzione che la diversità culturale rappresenti un valore non soltanto da riconoscere, ma altresì da tutelare e incentivare.
Questa visione delle cose, inserendosi all’interno di quella prospettiva politica che nel mondo anglosassone viene definita liberal, è convenzionalmente condivisa da quelli che si considerano progressisti, mentre viene contrapposta alla classica impostazione conservatrice che rifiuta le culture differenti.
In questo articolo cercherò di dimostrare come entrambe le tesi di cui sopra, per motivi differenti ovviamente, siano parimenti sbagliate, per poi concludere esponendo la mia tesi sul rapporto tra libertà e diversità culturali.
In termini morali l’attribuzione alla propria cultura di un valore superiore rispetto a quelle differenti non può trovare alcuna giustificazione, se non quelle, autoreferenziali, dettate dall’utilizzo di un principio egoistico. Insomma, condannare la contaminazione di una serie di usi e costumi attraverso la loro confusione con usi e costumi differenti non può implicare l’adozione di alcun principio oggettivo.
Naturalmente l’ideologia cosiddetta conservatrice è ispirata al concetto di discriminazione, in base al quale la diversità rappresenta in sé e per sé un disvalore: un circolo vizioso dal quale difficilmente si potrebbe venir fuori, perlomeno con gli strumenti messi a disposizione da chi ne ha gettato i presupposti.
D’altro canto neppure la prospettiva progressista appare esente da vizi, a partire proprio da una grave contraddizione intrinseca: qualsiasi interscambio tra culture differenti implica automaticamente una omologazione. L’omologazione culturale può essere più o meno rapida e/o parziale, ma è comunque ineluttabile. Pertanto, se si ritenesse veramente necessario tutelare le diversità, se ne dovrebbe promuovere la compartimentazione anziché l’integrazione. Insomma, per paradosso la posizione conservatrice risulterebbe essere quella più efficace per conseguire gli scopi professati nella posizione progressista.
Eppure le contraddizioni sono assai meno gravi delle lacune presenti in ciascuna teoria, poiché entrambe omettono di cogliere il portato più profondo sotteso all’esistenza stessa delle diversità culturali fra le società umane nel mondo.
Il semplice fatto che una persona nata in Cina ragioni, mangi, si comporti e abbia credenze differenti da quelle di una persona nata negli Stati Uniti, oppure in Europa o in Africa, dimostra che la maggior parte di ciò che ci caratterizza profondamente come individui rappresenta soltanto una emulazione pedissequa, anziché l’esercizio di una libertà di pensiero critica e indipendente.
L’esistenza di culture differenti è la prova del fatto che nessuno è libero: proprio per questa ragione si dice che viaggiare molto apra la mente, poiché consente di comprendere almeno parzialmente l’esistenza di alternative rispetto a sistemi che l’individuo appartenente a una società difficilmente è in grado di mettere in discussione in modo autonomo e senza esempi differenti.
Guardiamo persone provenienti da diverse parti del mondo parlare lingue diverse, indossare abiti diversi, pregare divinità diverse, appassionarsi per sport diversi, avere scopi di vita diversi, principi e valori differenti e spesso contrastanti: detto in altri termini, tutto ciò è semplicemente indice del fatto che noi siamo assai più emulatori anziché attori, incapaci di distinguere tra i bisogni e le aspirazioni individuali e reali, e quelli indotti dall’emulazione sociale.
A questo punto si dovrebbe concludere che lo stesso procedimento di integrazione e/o di confronto tra culture differenti potrebbe essere giustificato soltanto nella misura in cui portasse al superamento del concetto stesso di cultura di massa, da compiersi attraverso la liberazione degli individui da tutte le suggestioni indotte.
Insomma, finché l’essere umano avrà una cultura di riferimento, sarà schiavo di idee, tendenze i bisogni indotti e non potrà mai veramente definirsi libero di pensare né di agire.
A partire da questa prospettiva chiaramente radicale, il superamento dei fenomeni di induzione culturale, o, per meglio dire, l’affrancamento dalla schiavitù intellettuale, può verificarsi non tanto dal raffronto tra culture (forme di schiavitù mentale) differenti, quanto dalla estraniazione individuale: quanto più la persona è in grado di organizzare la propria vita le proprie decisioni su base autonoma e senza modelli di riferimento, tanto più potrà dirsi libera e consapevole.
Naturalmente, assai più del contatto tra individui, l’interferenza degli usi sociali con la libertà di pensiero individuale si manifesta attraverso televisione, cinema, libri, giornali, etc. Perfino la semplice selezione delle materie, dei periodi storici o degli avvenimenti storici da insegnare, incide notevolmente sulla libertà di pensiero, poiché costituisce quel bagaglio di informazioni e orientamenti che successivamente la persona utilizzerà come propri referenti. Basti pensare alle differenti nozioni storiche che vengono impartite nei diversi paesi del mondo: non soltanto si studiano e si apprendono fatti differenti, ma perfino il modo in cui vengono trattati gli stessi episodi varia da cultura a cultura. Tutto quello che apprendiamo scuola è già frutto della selezione di una selezione: argomenti ed epoche prescelti, che vengono riferiti in un modo determinato anziché in un altro. Si dice spesso che la storia rappresenti una fonte continua di lezioni per il presente per il futuro, ma si omette di precisare che la maggior parte delle persone ha accesso esclusivamente a stralci di storia pre compilati e confezionati ad arte.
In conclusione, l’unico precetto universalmente valido per conquistare un ritrovare la libertà perduta resta quello di avere il coraggio di mettere in discussione tutto.