PREMESSA
Questo non è un articolo nichilista, né disfattista, né fatalista e il suo scopo non è rattristare il lettore, bensì formulare un’osservazione critica che possa fornire spunti concreti per agire ed essere interpreti del cambiamento. Ci tengo a precisarlo poiché sono perfettamente consapevole che oggigiorno siamo irrimediabilmente attratti dalle sgargianti e illusorie gratifiche di futili intrattenimenti, ma parimenti atterriti dalle informazioni tristemente vere e non filtrate da censura e manipolazioni, temendo che ci rovinino la nostra beata e ingenua spensieratezza.
Vorrei anche sottolineare – ma questo lo approfondirò meglio in altro contesto – che la tristezza non è un “fatto”, tantomeno assoluto e immutabile: non esiste alcuna equazione che sancisca la tristezza quale matematico risultato a fronte di taluni eventi.
La tristezza, proprio come la felicità, l’ansia, la depressione, la malinconia, etc., dipende esclusivamente da noi: si può essere felici in quella che alcuni definiscono “sventura”, ma anche infelici nella “fortuna”. Non esiste un assoluto, bensì n sfumature.
SINTOMI
L’umanità, da sempre, attraversa ciclicamente quelle che Saint-Simon aveva definito “epoche organiche” ed “epoche critiche”: a periodi di progresso e sviluppo si alternano momenti di ripensamento critico del sistema, che conducono alla sua decostruzione.
Se assumessimo l’intera storia umana quale oggetto di indagine, potremmo accorgerci che è un susseguirsi incessante di “tentativi”: ogni civiltà rappresenta un approccio differente alla vita e ciascuna si evolve seguendo una parabola.
Perché una parabola e non una linea retta? Per la mancanza di equilibrio: se i fattori dell’equazione non sono tutti corretti, il sistema potrà nascere e svilupparsi, ma sarà sempre condannato, dall’origine, a collassare su se stesso.
Immaginiamo di erigere due muri, che fungeranno da base per una lastra di vetro: in una condizione di equilibrio aggiungeremmo ogni volta un mattone al muro di sinistra e uno a quello di destra. Cosa accadrebbe se per ogni mattone aggiunto a sinistra aggiungessimo due mattoni a destra?
All’inizio la differenza sarebbe minima, perfino impercettibile; man mano che il tempo trascorresse i due muri vedrebbero aumentare la differenza. In questa fase, che potremmo definire “di accumulo”, prima soltanto i più attenti osservatori, poi anche i meno attenti, si accorgerebbero che c’è uno squilibrio, ma gli mancherebbe la prova che questo sia realmente un problema, poiché – fino alla posa del vetro – si potrebbe affermare che non lo sia.
Fino alla posa del vetro il sistema sta ancora funzionando: i mattoni vengono posati, qualcuno si lamenta, ma tutto procede come da abitudini consolidate. È soltanto alla fine, cioè quando i mattoni si esauriscono ed è tempo di applicare il piano, che le opinioni lasceranno spazio ai fatti: il vetro si inclinerà e andrà in frantumi.
Qualcuno potrebbe affermare che il sistema ha funzionato finchè non si è interrotto, ma così non è: il sistema, infatti, era nato per consentire la posa del vetro e tutto ciò che è stato fatto fino a quel momento può essere considerato funzionale se e solo se atto a produrre il risultato desiderato.
Lo scopo dichiarato dello stato di diritto, dei paesi fondati sulle Costituzioni, avrebbe dovuto essere quello di garantire (perlomeno) all’essere umano la felicità, la realizzazione armonica del proprio essere e la cooperazione con i suoi simili.
Ma, pur a fronte di ampie rassicurazioni, non è questo che si è verificato nei fatti: proclamiamo sempre più diritti, inventiamo sempre nuove definizioni di aspettative e azioni volte a conseguirle, ma siamo costantemente all’opera per progettare e inventare nuovi metodi di vessazione dell’altro (quindi anche di noi stessi).
Quello che stiamo osservando, quando guardiamo i politici corrotti e legati indissolubilmente agli strapoteri economici, è il sintomo più evidente di una società nel tratto discendente della sua parabola, ma non tanto per il costume in sé, quanto per la rassegnazione con la quale vi assistiamo.
La civiltà industriale, fondata sui consumi, sta segnando il passo: quando le risorse iniziano a scarseggiare, i nodi iniziano a venire al pettine e il sistema mostra i suoi limiti.
LA DECADENZA NELLA SOCIETA’
Dall’osservatorio privilegiato di una grande città occidentale, quale è Milano – la New York italiana – si possono scorgere gli indirizzi sociali che nei luoghi più periferici non sono ancora osservabili, quindi cogliere le linee di sviluppo.
Qual è il percorso che l’occidente si è scelto? Soldi, lavoro, scienza: i primi come scopo della vita, il secondo come metodo per procurarseli e la terza come nuova fede.
La corsa ai soldi ci rende competitivi, egoisti, invidiosi, malevoli, o – perlomeno – ci permette di coltivare e massimizzare questi sentimenti e comportamenti, inoltre ci rende dipendenti dal lavoro; infatti l’equazione occidentale è “si fa quello che occorre per lavorare”, che poi è equivalente a “si fa quello che occorre per i soldi”.
Non esiste ideale, ma semplice adattamento: quanti sono felici di lavorare e di ciò che fanno e, se non occorresse per guadagnare, continuerebbero a farlo?
Siamo come vittime di una diffusa sindrome di Stoccolma, tanto da trovarci a promuovere, votare, inneggiare, supportare e difendere quegli stessi industriali, politici o personaggi di spicco che ci usano come strumenti per i propri fini (tendenzialmente denaro e potere): da ciò il paradosso della nostra società, che non è più nemmeno capace di riconoscere i suoi nemici, ma si persuade che siano amici.
Viviamo in un mondo, quello occidentale, appunto, che vede dispute pro o contro un marchio, un modello di telefono cellulare, una marca di autovetture, etc.: e il colmo è che sono proprio quei produttori che, depauperando il mondo, ci rendono ogni giorno che passa più poveri, più privi di futuro, più dipendenti e più vuoti.
Più ci addentriamo nei luoghi comuni sociali della quotidianità, più assistiamo a ritualizzazioni che steriliscono i rapporti, svuotandoli alla base e istituzionalizzandoli: ama chi fa il regalo più costoso, è importante chi ha l’auto più grande, è famoso chi va in televisione e chi è famoso merita maggiore considerazione.
La nostra vita si basa su cerimonie di cui non soltanto non siamo gli inventori, ma non sappiamo nemmeno più che senso abbiano: si lavora, ci si sposa, riproduce, alimenta e spende come ci hanno insegnato e poiché ce l’hanno insegnato.
Per questo oggi metà dei matrimoni finisce con divorzi: non scegliamo veramente, ma ci limitiamo a perseguire stereotipi, salvo poi accorgerci che non li condividevamo.
I principali profitti oggigiorno provengono dall’industria dell’intrattenimento e del superfluo: investiamo la maggior parte delle nostre risorse di denaro e del tempo che ci è costato guadagnarlo in oggetti che da 20 a 100 anni fa non esistevano neppure.
Siamo sempre più dipendenti, quindi sempre più fragili. E manipolabili.
Senza pc, telefonino, internet, automobile, elettricità e petrolio, siamo perduti: sentiamo vacillare il nostro mondo e venir meno le nostre certezze, sperimentiamo abbandono, smarrimento e ansia.
Eppure ne vogliamo sempre di più. E qualcuno, “lassù”, ci ascolta: eserciti di produttori e commercianti non aspettano altro che un nostro cenno, per potersi offrire di lenire il nostro senso di vuoto, riempiendolo con l’inutile.
Ci lamentiamo di un numero infinito di cose, ma le provochiamo noi: dei politici disonesti, che però eleggiamo, dei prezzi delle case, che però comperiamo, della mancanza di valori, che affligge anche noi, della superficialità dei rapporti, mentre ci isoliamo nei nostri smartphone, della situazione dell’ambiente, mentre fumiamo la sigaretta dopo il caffè dopo il dolce dopo la bistecca dopo il primo dopo l’antipasto e mentre facciamo manovra col nostro SUV per andare a comperare decine di regali di natale e coprirli con strati di carta, nastri, fiocchi, etc.
Ci lamentiamo moltissimo, ma quando qualcuno mostra i mali della società, cioè i nostri, “cambiamo canale”, perché è triste vedere un maiale al macello che si dissangua appeso a testa in giù, o una mucca che urla mentre le portano via il figlio neonato: è molto più comodo guardare il gioco a premi sull’altro canale, magari mangiandosi un panino al salame e bevendo un bicchiere di latte.
Viviamo nella paura: paura di contrarre malattie, paura di essere feriti, paura di essere offesi, paura di non essere “abbastanza”, paura di non arrivare a fine mese, paura di doverci privare di qualche oggetto o di soldi. Qualsiasi paura è lecita, purchè ci consenta di spostare il problema fuori di noi e non obbligarci a guardare dentro.
Nel 2003 la mia tesi di laurea, sperimentale, sosteneva che Internet e le tecnologie di comunicazione in generale rappresentassero dei veri e propri catalizzatori dei rapporti sociali: strumenti in grado di accelerare le interazioni, inevitabilmente modificandole.
10 anni dopo vediamo come Facebook sia divenuto il parametro ufficiale della socialità, whatsapp il canale di comunicazione interindividuale per eccellenza e i selfie la forma di autocelebrazione più diffusa.
LA DECADENZA NELLA CULTURA
In occidente si respira aria da “fine del mondo”, ed è una fine autoindotta, non certo casuale e imprevista: il cinema – probabilmente la nostra rappresentazione culturale più rappresentativa – registra questo sentire collettivo attraverso una sovrapproduzione di opere catastrofiche.
Il filone catastrofista del XXI secolo, rispetto a quello che l’ha preceduto di circa un trentennio, si contraddistingue per la dimensione assoluta della distruzione, che prima riguardava palazzi (Trappola di cristallo), navi (L’avventura del Poseidon), dirigibili (Hindenburg), aerei (Airport) o luoghi poco più grandi, e raramente intere nazioni (Sindrome cinese): il cinema catastrofista contemporaneo parla, senza mezzi termini, di distruzione globale, con una sempre crescente riconduzione all’inquinamento e alle interferenze dell’uomo con l’ambiente.
In “28 days later” e in “28 weeks later” un contagio, provocato dall’uomo, semina morte e distruzione, così come anche in “World war Z”; molto più esplicito “The day after tomorrow” mostra la devastazione conseguita al cambiamento climatico.
Del resto anche “I am legend”, “Diary of the dead”, “Zombieland” e innumerevoli altri lungometraggi riportano in vita i morti, che, contagiati da non meglio identificati virus, popolano il mondo sostituendosi ai vivi.
Forse molto più profetici di quanto l’argomento sembrerebbe, questi film non raccontano un futuro possibile, ma un presente già realizzatosi e contraddistinto da isolamento, paura e rinuncia al proprio essere umani, intelligenti e consapevoli, a favore di un omologarsi, snaturarsi e ridursi ad automi (rectius: zombie).
In “Equilibrium” la cura dei mali dell’umanità proviene dal farmaco che, “magicamente”, sedandoci, reprime le emozioni, togliendoci sì l’ira e l’aggressività, ma anche l’empatia, la sensibilità, la solidarietà, la generosità: macchine senz’anima.
L’equilibrio del titolo è proprio quello che ci manca e che non riusciamo a conquistare, mediando tra le emozioni di un tipo e quelle opposte.
“The road” non ci spiega da dove sia partito il tutto ma fotografa un mondo ormai collassato, in cui i pochi superstiti umani sono la più grave minaccia alla sopravvivenza: non esiste più natura, ma soltanto altre persone, vittime o carnefici.
Ne “I figli degli uomini” l’umanità è semplicemente sterilizzata e la sua sopravvivenza è messa in dubbio dall’incapacità di riprodursi: sulla scorta di questo fenomeno, si respira aria da fine del mondo e soltanto la speranza, incarnata dalla prima donna incinta dopo molti anni, riunisce le fazioni intente a spartirsi i resti di un presente senza futuro.
Libri e film che, in una sorta di catarsi collettiva, ci abituano a confrontarci con gli esiti nefasti della nostra logica individualista, egocentrica ed egoistica: inconsciamente tutti avvertiamo un pericolo, che però cerchiamo o di ignorare, attraverso la negazione e la distrazione, oppure di sublimare attraverso simili opere catastrofiche.
Impossibile non palpare in questo proliferare di manifestazioni artistiche pessimistiche le ansie e le contraddizioni della società contemporanea, che logora e divora se stessa.
RIMEDI
In tutto questo siamo incapaci di andare oltre, mentre i presupposti su cui abbiamo fondato il nostro sviluppo stanno manifestando con sempre più prepotenza i propri limiti e controindicazioni: privati di quegli scopi effimeri della vita e incapaci di perseguirne di più profondi, siamo irrimediabilmente in viaggio verso l’annichilimento, che sopraggiungerà al verificarsi di un punto di rottura.
Il punto di rottura potrà essere una guerra, una crisi economico-politica o un disastro ambientale: verosimilmente l’insieme di questi fattori sarà comunque determinante per giungere al cambiamento.
Il cambiamento potrà avvenire serenamente, se saremo in grado di evolvere nella consapevolezza, oppure in modo traumatico, se ci lasceremo sopraffare dalle tensioni contemporanee e se ci faremo usare ancora per gli interessi di pochi.
L’ho detto in apertura – anche se dubito che questo abbia spinto i più a persistere nella lettura di questo lungo articolo – e ora è arrivato il momento di essere propositivi: cosa si può fare per cambiare le cose?
I principi dell’Eusebismo sono ispirati a considerazioni universali e io ritengo che il primo passo per cambiare le cose attorno a noi sia cambiare noi stessi e la nostra percezione di ciò che ci circonda.
Il primo passo, cioè il cambiamento di sé, è sia la chiave di comprensione di tutto il resto, sia lo strumento concreto e immediato a disposizione di ciascuno di noi per fare la differenza.
Soltanto se siamo riusciti ad agire attivamente su noi stessi potremo rivolgerci agli altri, informandoli e partecipando a portare nel mondo una luce nuova, basata sulla concezione dell’altro da sé come entità meritevole di rispetto e non già come strumento per un fine, o, meglio ancora, sulla consapevolezza che a un livello più profondo non esiste “sé” e “altro da sé”, ma che siamo tutti collegati, uniti, Uno.
Dalla consapevolezza deriva anche la serenità: comprendere che l’importanza del viaggio non è nella meta, ma nella strada fatta per raggiungerla, consente di dar valore ai singoli atti e rapporti, e rifiutare la mentalità diffusa che il fine possa giustificare i mezzi, o che vinca chi raggiunge il massimo, a prescindere da come l’abbia raggiunto.
Insomma, non c’è proprio niente da perdere “là fuori”, poiché tutto ciò che possiamo perdere si trova dentro di noi e sono la paura, la superficialità, l’incapacità di cambiare e l’egocentrismo che, illudendoci di renderci forti, al contrario ci svuotano rendendoci più deboli, più soli e alla deriva.
Solleviamo le armi della ragione, del senso critico e della curiosità per riappropriarci di noi stessi e del mondo, per rendere l’oggi un luogo in cui abitare serenamente e il domani un luogo di speranza, anziché di afflizione.
Se sapremo improntare noi stessi alla ricerca dell’amore, della comprensione e della compassione, il mondo cambierà di conseguenza e finalmente la nostra evoluzione non sarà più una parabola effimera, bensì una retta destinata a crescere senza flessioni.
Dare e ricevere queste cose potrà riempire i vuoti che ora cerchiamo di coprire con inutili gadget tecnologici e intrattenimenti superficiali, rendendoci tutti più consapevoli, realizzati, indipendenti e privi di falsi bisogni surrogati.