Carne in vitro: cos’è?
Il business della carne sintetica non è ancora iniziato, eppure già si sono formate le prime correnti di pensiero, e l’opinione pubblica pare spaccata. Forse anche pilotata ad arte, semplicemente per orientare e/o sondare il mercato.
La domanda che tutti si pongono è: adatta o no per vegetariani/vegani?
Prima che l’argomento diventasse di moda, mi ero già occupato di questo ne Il dovere del vegetarismo (2013), prospettando un futuro prossimo con una nuova categoria di vegetariani, che avevo profetizzato di definire “vitro vegetariani” (o “vitro vegani”, per chi ritiene che ci sia differenza tra i due vocaboli, che in realtà sarebbero sinonimi).
Anzitutto un inquadramento sistematico: che cos’è, e come si ottiene, la carne in vitro?
La carne “sintetica” rappresenta semplicemente la riproduzione di (e a partire da) cellule degli animali di cui si intende produrre la carne, che da questi devono essere ovviamente estratte per dare il via alla produzione.
Il primo quesito che ci si potrebbe porre, dunque, è: quante volte, come, e con quali conseguenze per l’animale, si dovrà effettuare il prelievo? Una risposta generale (e generica), che potrebbe essere più che sufficiente per molti, è che il numero di soggetti coinvolti e l’impatto dell’operazione sarebbero di parecchi ordini di grandezza inferiori rispetto a quelli attuali. Da decine di miliardi a migliaia. Naturalmente la sofferenza sottesa al procedimento non sarebbe neppure paragonabile a quella della produzione di carne.
Allo stesso tempo, l’impatto ambientale sarebbe drasticamente ridotto a partire dall’occupazione di suolo per allevamenti e coltivazioni.
D’altro canto il procedimento determina un elevato fabbisogno energetico e idrico, nonché l’utilizzo di sostanze volte a consentire lo sviluppo delle cellule, il loro mantenimento e a preservarle da funghi e batteri: le stime in proposito sono meno chiare, e tuttora controverse.
La carne in vitro può essere coltivata nel liquido fetale (animale), oppure in soluzioni a base vegetale.
Argomenti a favore
Le argomentazioni a favore della carne sintetica si sprecano, e possono essere riassuntivamente indicate nelle seguenti:
– abbattimento del numero di animali utilizzati,
– eliminazione del bisogno della macellazione,
– beneficio ambientale,
– beneficio animale indiretto (a fronte del ripristino degli habitat adibiti a coltivazioni/pascoli)
Argomentazioni a sfavore
Le principali argomentazioni contro la carne in vitro, invece:
– implica comunque l’uso di animali non umani,
– perpetua la convinzione che sia opportuno alimentarsi con la carne,
– non sostituisce la carne “vera” per via delle differenze intrinseche
Etica e salute
A questo punto dovrebbe essere chiaro che le principali aree di riflessione attorno alla questione del vitro vegetarismo sono quelle dell’etica e della salute, sussumibili nei seguenti quesiti: “E’ giusto?” e “Fa bene?”.
Prima di abbandonarsi a facili entusiasmi, occorrerebbe riflettere attentamente sull’intero procedimento, che attualmente è ancora lungi dall’affermarsi su scala industriale. Affrontiamo, quindi, la problematica etica un passo alla volta, a partire dall’utilizzo di animali nel sistema di produzione. È etico?
L’argomentazione che conclude per il sì muove da due presupposti: i) rispetto al sistema attuale lo sfruttamento animale sarebbe infinitamente ridimensionato, ii) teoricamente sarebbe possibile utilizzare animali “veri” soltanto all’avviamento della produzione. Entrambe le argomentazioni sono fallaci.
Il primo argomento non può essere accolto, in quanto suggerirebbe una morale “relativa”: poiché viviamo in un sistema profondamente ingiusto, un sistema “meno ingiusto” sarebbe automaticamente “giusto”. Ma così non è. Certo, accogliendo l’invito al pragmatismo (che da più parti assomiglia assai più a un diktat, anziché a un invito), si può condividere l’affermazione che sia meglio limitare i danni, anziché mantenerli invariati; ciononostante, occorre essere ben consapevoli della differenza tra ciò che è “giusto” e ciò che è “meno ingiusto”. Non foss’altro che la prima opzione è da preferire solo in mancanza di alternative, mentre la seconda può essere legittimamente designata quale ambizione morale e punto di arrivo. È un po’ lo stesso concetto delle auto elettriche, che per essere prodotte inquinano molto più di quelle tradizionali, e gli “ambientalisti” che le promuovono non si rendono conto che, così facendo, ingenerano la convinzione che acquistare un prodotto industriale altamente inquinante possa in qualche modo favorire l’ambiente: in tal modo, anziché essere consapevoli di agire in modo comunque dannoso, riteniamo di agire in modo giusto e desiderabile.
Da un punto di vista morale la quantità non può modificare la giustizia intrinseca di un atto: se è sbagliato utilizzare un milione di animali, è sbagliato anche utilizzarne uno solo. Non è più o meno sbagliato: è ugualmente sbagliato. Può essere più o meno dannoso, ma rimarrà moralmente giusto o sbagliato in sé e per sé. E, quindi, la soluzione del quesito morale, dovendo prescindere dalla quantità, resta invariata e passa attraverso il quesito: “E’ moralmente lecito sfruttare animali non umani per qualsiasi finalità?”. Se lo chiedete a me, la risposta è semplicemente “no”.
Se la risposta fosse sì, ricadremmo nello stesso circolo vizioso che ha condotto a ciò che da millenni si compie, cioè lo sfruttamento di deboli e indifesi. Che non riguarda soltanto gli animali, ma chiunque non abbia la capacità o la volontà di opporsi. È, insomma, la perpetuazione dell’ideologia della cosiddetta “legge del più forte”: prendere tutto ciò che si vuole e che si ha la possibilità di prendere.
Superato l’aspetto del “se”, resta quello del “quanto”: sarà vero che basterà una manciata di animali, una tantum, e poi si potrà vivere di rendita a tempo indeterminato? Questa previsione è utopistica, a partire dal fatto che presupporrebbe un’unica produzione mondiale accentrata in un unico soggetto. Ma in un mondo frazionato in centinaia di stati, federazioni, regioni, e di libero mercato, già sono numerose le società che hanno depositato brevetti o che si sono dette interessate all’affare. Luoghi diversi, compagnie diverse, prodotti diversi, richiedono animali diversi. E non è difficile intuire che, per molti motivi, ci sarà un mercato tutto nuovo di animali “da carne”, e consequenzialmente di allevamenti destinati non più a offrire la carne ai consumatori, ma a produrre schiavi da riproduzione cellulare, che poi potranno essere ceduti o fatti a loro volta riprodurre per mantenere le “stirpi”.
Chi è vegano ha scelto di non nutrirsi di uova poiché consapevole del fatto che, a monte di tale produzione, c’è un mercato di galline ovaiole basato sulla sistematica soppressione dei maschi e sulla detenzione delle femmine. Il mercato della carne in vitro non sarà poi molto dissimile, dovendo per forza di cose prevedere un sistema di approvvigionamento (allevamenti), compravendite, e soppressioni arbitrarie per svariate ragioni (ovviamente di natura economica).
La critica che già si presenta come la più diffusa al rifiuto etico della carne in vitro è: “non è verosimile che le persone smettano di mangiare carne, quindi occorre fare il possibile per proporre alternative meno cruente”. L’affermazione – di per sé – non è falsa, ma omette di tenere in considerazione il fatto che proporre carne sintetica non favorisce in alcun modo il distacco dal consumo di carne. Anzi, corrobora l’idea che tale uso possa essere etico, e, quindi, lo favorisce. È, insomma, l’opposto di ciò che dovrebbe essere, se si ha come scopo quello di far cessare l’uso di animali per finalità alimentari.
C’è, poi, la questione relativa alla salute. L’OMS, prima che si cercasse di insabbiarlo, o di correggere il tiro, ha ammesso che la carne è dannosa per l’uomo. In particolare è stato sancito che il ferro contenuto nel sangue favorisce i processi di ossidazione dell’organismo. La cosa interessante è che la carne in vitro, per sua natura, sarebbe priva di sangue: ciò, però, la rende sia poco appetibile che nettamente diversa da quella “vera”. Proprio per questo motivo c’è chi ha già annunciato – orgogliosamente – di essere in grado di riprodurre muscoli e sangue nella propria carne in vitro.
Naturalmente non è solo il sangue presente nella carne, a rappresentare una minaccia per la salute umana.
Per contro, la carne sintetica sarebbe priva di qualsiasi fonte di vitamina B12, ciò che rappresenta la principale causa di critiche alla dieta vegana, da parte di chi ignora che la B12 presente negli alimenti di derivazione animale deriva a sua volta dall’aggiunta di integratori.
Tutto quanto sopra porta a concludere che anche da un punto di vista strettamente salutistico non c’è ragione per utilizzare la carne sintetica, così come non ce n’è per utilizzare quella “vera”. Se possa essere più o meno dannosa di quest’ultima, potrà essere compreso soltanto verificando all’atto pratico il metodo di produzione, le sostanze impiegate, nonché le loro reali implicazioni a distanza di tempo, e dopo che un sufficiente numero di consumatori avrà fatto da ignara cavia, solo per scoprire le ennesime controindicazioni di una serie infinita di innovazioni scientifiche e tecnologiche che soltanto dopo tempo dalla loro introduzione hanno manifestato compiutamente danni e pericoli imprevisti (dalla plastica all’amianto, dagli alcolici alle sigarette, dal DDT ai raggi X, etc.).
Conclusioni
La carne in vitro, quindi, va promossa o rifiutata?
Da un punto di vista morale credo che non possano esistere dubbi: chi ha scelto un’alimentazione vegana per motivi etici dovrebbe considerarla al pari di uova e latte o miele, stanti le evidenti analogie. Forse i vegetariani potrebbero trovarla consona rispetto alle proprie istanze etiche, e, anzi, addirittura si può facilmente rilevare che sarebbe assai meno lesivo per gli animali consumare carne sintetica anziché latte o formaggi. D’altro canto dovrebbe essere altresì ribadito che non esiste alcuna etica vegetariana, intesa come “latto-ovo-vegetariana”, poiché quando il termine fu coniato indicava in realtà una dieta esclusivamente vegetale, e non quella che con il tempo e con l’uso ha poi aggiunto latte e uova, ma senza alcuna base etica.
E da un punto di vista pragmatico, invece? Se si intende scindere morale e azioni, allora si può concludere che è meglio che un onnivoro mangi carne in vitro anziché carne “vera”. Ma, allo stesso tempo, è meglio che un vegano e un vegetariano non mangino affatto carne. Se l’introduzione sul mercato di questa “alternativa” spingerà vegani e vegetariani (come è inevitabile che sia) a ripensare le loro abitudini, e tratterrà tutti gli altri dal diventare vegani, allora è evidente che il risultato non sarà (solo) quello di far diminuire il consumo di carne (vera), ma anche quello, in generale, di far aumentare il consumo di carne. E quindi anche il numero di imprese e di animali coinvolti nella produzione. E così via.
In realtà il fatto di voler produrre carne in vitro a tutti i costi rappresenta essenzialmente un fenomeno di mercato e l’ennesimo metodo per incrementare i consumi di prodotti non utili, non necessari, e semmai deleteri. Non dissimilmente dalla produzione di insetti per soddisfare gli appetiti umani, e che viene portata avanti condividendo molte delle argomentazioni “pro carne in vitro”, e soprattutto quella ambientale: d’altronde l’ecologia nel marketing si è ormai da tempo palesata come la carta vincente in ogni ambito.
E, dunque, carne in vitro sì, o carne in vitro no? A ciascuno il suo.