IL DUALISMO? È UN EQUIVOCO, NECESSARIO.

YIN YANG

Chi non ha mai imprecato contro qualcun altro?

Chi non ha mai desiderato ardentemente sconfiggere, umiliare, soverchiare, superare, trionfare o semplicemente prevalere sul prossimo?

Chi non ha mai inneggiato a una bandiera, a un partito, a una fede, a una squadra, a una città o nazione, a una razza, a una specie, a un genere, a un gruppo o a degli amici, desiderandone ardentemente l’affermazione, anche a scapito di “altri”?

Chi non ha mai pensato in termini di “noi” in contrapposizione a “loro”?

Chi non ha mai pensato alla propria famiglia come più importante dei non famigliari?

Siamo educati al duale fin da piccoli, spesso subliminalmente: non è frequente che si ammetta o si sostenga apertamente la discriminazione. Non si dice ai propri figli (solitamente) che i “diversi” sono inferiori, però lo si dimostra quotidianamente attraverso ciò che i giuristi chiamano “fatti concludenti”: favorendo il parente al lavoro, denigrando chi vota un altro partito, professando una fede, considerando i propri connazionali che invadono altri popoli come liberatori e quei popoli che si ribellano come terroristi, suggerendo che “gli uomini sono tutti…” (o che “le donne sono tutte…”), etc.

Il dualismo caratterizza le nostre vite, da che esse iniziano. Per meglio dire, il dualismo caratterizza l’esistenza sul piano fisico: le persone sottoposte a ipnosi regressiva concordano che, al di fuori del piano fisico, la percezione dell’appartenenza sia un fatto evidente. L’anima, a differenza della mente, non si concepisce come un assoluto scollegato da tutto il resto dell’universo, bensì come una sua manifestazione, quindi una promanazione.

L’universo virtuale (od olografico), cioè matrix[1], è caratterizzato dal dualismo, ma si tratta di un dualismo percettivo, o formale, non sostanziale: ci pare che sia così, ma non lo è davvero, cioè sul piano reale.

Il primo e fondamentale equivoco in cui siamo tradizionalmente incorsi consiste nel dualismo “dio/uomo”, o, se si preferisce, “creatore/creato”. Non esiste un dio-creatore separato dall’uomo-creazione.

A questo punto ci si potrebbe domandare perché si sperimenti qualcosa che non esisterebbe, ma la risposta è molto più scontata di quanto si possa pensare: se qualcosa non esiste, per sperimentarlo occorre prima inventarlo.

Immaginiamo di vivere in un mondo in cui non esista fine/morte: come si può sperimentarla? Occorre creare un mondo in cui essa esista. Non sarà un mondo reale, poiché in quello – abbiamo detto – la fine non esiste: si tratterà quindi di un mondo virtuale o simulato, calandoci nel quale sperimenteremo gli effetti della temporaneità della vita.

Se sembra incredibile possiamo fare un piccolo esperimento: quando leggiamo un libro, guardiamo un film o giochiamo a un videogioco, sappiamo perfettamente di non essere il personaggio, cioè di trovarci al di fuori delle vicende cui assistiamo; eppure ci preoccupiamo, ci emozioniamo e gioiamo in relazione agli eventi. Sappiamo anche che i fatti narrati non accadono realmente, ma ciononostante vi assistiamo con partecipazione. Ma se, per caso, andassimo a dormire una sera e ci risvegliassimo all’interno di un film, senza alcuna memoria di ciò che era la nostra vita precedentemente, l’effetto di immedesimazione sarebbe assoluto e noi saremmo realmente convinti di appartenere a quel film, e quegli eventi ci sembrerebbero l’unica e sola realtà possibile.

Risalendo ancora più a monte ci si potrebbe domandare per quale motivo la coscienza indivisa e senza tempo avrebbe dovuto inventare, e quindi sperimentare, la divisione e la caducità: il senso di questo risiede nell’acquisizione di consapevolezza. Per capirsi occorre guardarsi da fuori, ma ciò non è possibile se l’intera realtà inizia e finisce in sé: occorre dividersi, distinguersi e creare artificialmente le condizioni per vedere se stessi dall’esterno. Così nasce il dualismo: un equivoco, poiché riteniamo reale qualcosa che non lo è, necessario in quanto unico metodo per effettuare l’esperienza che è in grado di accrescere la consapevolezza.

Oggi, in concreto, a cosa serve capire la reale natura dell’essere, del dualismo (formale) e del monismo (sostanziale)? Questa informazione ci aiuta a inquadrare correttamente la realtà in cui esistiamo, e, in accordo con l’evoluzione nella consapevolezza, di emanciparcene.

Detto in altri termini, se è vero che il dualismo è necessario per acquisire consapevolezza, è pur evidente che, una volta acquisitala, esso perde valore. Insomma, noi abbiamo la scelta tra l’essere dominati dal concetto di dualismo e il dominarlo, emancipandocene e comprendendone la reale natura, meramente apparente e funzionale, ma non sostanziale.


[1] http://www.eusebismo.org/riflessioni/matrix-esiste-e-noi-ci-siamo-dentro