In posti come bar, o il loro equivalente moderno, cioè televisione e social network, si discute spesso di temi importanti in modo superficiale e il risultato è quello di fare confusione anziché chiarire le idee.
L’alimentazione non sfugge a questa regola e, anzi, ultimamente sembra sempre più al centro dell’attenzione, anche se per motivi opposti e, la maggior parte delle volte, molto venali.
Chi vende cibo fa molti soldi: questo è un fatto talmente evidente da passare in secondo piano, facendo dimenticare un’altra realtà banale, cioè che molti farebbero qualsiasi cosa per i soldi.
Ipotizziamo, per puro piacere intellettuale, che ciascuno di noi sia in grado di produrre il proprio cibo: ciò cosa significherebbe? Andando a monte, ma proprio a monte, quelle poche società che hanno l’oligopolio della produzione alimentare mondiale non esisterebbero, non potrebbero più foraggiare politici conniventi, sfruttare e affamare popolazioni, lavoratori, concorrenti, piccoli produttori, etc.
Poi la catena scenderebbe verso il basso: niente confezioni (inquinanti), trasporti intercontinentali, sovvenzioni statali o comunitarie, niente distributori (con conseguente ricarico dei prezzi), niente rivenditori finali (con ulteriore rincaro), niente diserbanti, pesticidi, additivi.
Ma a questo punto verrebbero meno anche tutte le inserzioni pubblicitarie relative ai generi alimentari: se tutti mangiassimo frutta prodotta da noi stessi o a livello locale, o al massimo barattata con altre materie prime di paesi con climi inadatti a certe produzioni, non ci sarebbe alcuna concorrenza da sbaragliare, né prodotti altamente sofisticati da emulare.
Certo, si rinuncerebbe a quei vizi e capricci che nel corso dei secoli ci siamo elargiti: si perderebbe il piacere di assaporare una barretta al cioccolato-latte-pan-di-spagna-cereali-confettura (che, comunque, ci garantiscono, fa bene ai bambini ed è ora più leggera del 20%!) o di una cotoletta rifritta di pollo farcita con formaggio e quant’altro.
Ovviamente a fronte di tante e tali rinunce i benefici sarebbero insignificanti: drastico rallentamento dell’invecchiamento, prevenzione di malattie virali, corretto funzionamento dell’organismo, cura e prevenzione della maggior parte delle patologie tumorali oggi diffuse, drastica riduzione dei problemi di obesità e cardiocircolatori, diminuzione dello stress e malattie collegate, miglioramento della capacità muscolare e delle facoltà mentali, assenza di disturbi legati alla digestione, aumento delle risorse alimentari disponibili per tutti, cessazione dell’inquinamento derivante dai procedimenti industriali di produzione alimentare, drastica riduzione dell’impatto ambientale e paesaggistico, diminuzione del rischio idrogeologico e sismico, miglioramento della qualità dell’aria diretto e indiretto, etc.
Certo, questo mutato sistema provocherebbe anche molti problemi all’industria farmaceutica, poiché il cibo come medicina vanificherebbe rimedi sintomatici o palliativi, con il risultato di rendere disoccupate tutte quelle altruiste persone che, a fronte di insignificanti miliardi di dollari di bilanci annuali, “migliorano” la vita di così tanti malati (o presunti tali, o resi tali): e senza un’industria (pseudo)alimentare che ci metta all’ingrasso e ci devasti, come ci si potrebbe poi offrire la scintillante cura farmacologica per perdere quei chili di troppo o curare quelle malattie di cui sopra?
Insomma, è proprio evidente che sarebbe molto sciocco privarsi di cotanti benefici soltanto per marginali vantaggi.
Ma dicevamo delle chiacchiere da bar… ops… dei dibattiti scientifici in televisione: quando ci spiegano che l’essere umano è onnivoro per natura e che non sopravvivrebbe senza mangiare carne o cibi cotti, noi, poveri profani che lavoriamo tutto il giorno tutti i giorni per portare a casa la pagnotta (ignorando però che la farina raffinata è tossica e cancerogena e che, quindi, lavoriamo per avvelenarci) finiamo per ammettere, sgomenti, che dinanzi alla scienza non possiamo che obbedire.
Se provassimo a fare uno sforzo, per un attimo soltanto, fingendo di essere liberi pensatori anziché succubi di idee altrui trasmesse a livello sociale, potremmo forse riappropriarci della logica e scoprire che nel regno dell’impossibile non si trovavano alcune idee, ma tutt’altre.
Catapultiamoci indietro di qualche centinaio di migliaio di anni, cioè quando l’uomo ha assunto le sembianze odierne, evolvendosi dai suoi predecessori: niente strumenti per cacciare o macellare, niente fuoco per cuocere, nessuna capacità di coltivare piante o di allevare bestiame. Insomma, niente cacciagione, né latte, né uova, ma nemmeno cereali o piante che non fossero frutti o comunque in grado di ricrescere spontaneamente una volta utilizzati.
Quest’uomo non era poi tanto strano: era come tutti i suoi simili non umani, che si sono evoluti per mangiare qualcosa in ragione della sua esistenza e che, dunque, non esistendo cibi cotti in natura, non mangiano se non alimenti crudi.
D’altronde se l’essere umano, come taluni sostengono, si fosse “evoluto” adattandosi a mangiare la carne, non si spiegherebbe perché oggi come migliaia di anni fa sia costretto a cuocerla per poterla digerire e non trovi succulento un animale a brandelli: non ci sono notizie di leoni che, nella loro evoluzione, abbiano modificato le proprie abitudini, trovandosi maggiormente a proprio agio con una bistecca ben cotta di zebra.
Insomma, possiamo ben porci il quesito del titolo: è nato prima l’uomo o il suo cibo? Perché, stando alle migliori chiacchiere da bar, godremmo di un indiscusso primato: saremmo la prima e unica specie ad essere nata ed evoluta prima ancora che nascesse il cibo del quale si nutriva!
Ecco, questa sarebbe la scoperta più importante della nostra storia e ci legittimerebbe – tutti, nessuno escluso – a entrare di diritto nel guinness dei primati.
Ciò vorrebbe anche dire che la natura è effettivamente molto meno precisa di come ce la figuriamo normalmente, ma, in compenso, molto più burlona: ve l’immaginate un inventore che avesse costruito la prima automobile con motore alimentato a benzina 500 anni prima che si producesse la prima goccia di benzina? Folle o precursore?
Ecco, quindi, il più grande prodigio di tutti i tempi: la specie umana, l’unica capace di sopravvivere ai millenni necessari per ingegnerizzare il suo corretto nutrimento, accontentatasi per tutto quel tempo di succhiare radici e oggi finalmente in grado di godersi in tutta serenità il suo cibo di natura, cioè quello sintetizzato in fabbrica.