Recentemente ha destato un certo interesse la notizia che l’agenzia spaziale americana (NASA) aveva organizzato un simposio, riunendo esponenti del mondo scientifico, ma anche culturale e religioso, per vagliare le prospettive di interazione con vita extraterrestre[1].
L’affermazione più eclatante è stata che ormai non si discute più del “se” si entrerà in contatto con forme di vita aliene, bensì soltanto di “quando” ciò avverrà.
La questione non sembra irrilevante, e, anzi, fa quasi sorridere che, mentre numerosi astronauti affermano di aver sistematicamente visto UFO fin dalle prime missioni spaziali, l’Agenzia sorvoli su tutto ciò e si preoccupi di un ipotetico futuro contatto, eventualmente con microorganismi.
Ciò che è certo è che ad oggi non sia stata formulata alcuna teoria giuridica atta a disciplinare i rapporti tra umani e alieni, e se perfino a livello ufficiale e pubblico la NASA giunge a proporre una riflessione su questa relazione è evidente che sia giunto il momento di apprestare una teoria del diritto atta a ricomprendervi i non terrestri.
PREMESSE
Il diritto occidentale contemporaneo non contempla come titolari di diritti altro che gli esseri umani, eventualmente anche in forma collettiva: una società, così come un’associazione di persone, possono godere di diritti e perfino agire in giudizio per farli valere. Da tali attribuzioni sono esclusi tutti i “non umani”, perciò gli animali, per il semplice fatto di non essere umani, non possono godere di diritti né essere soggetti a (tantomeno, evidentemente, intraprendere) giudizi. In passato, più precisamente nel medioevo, gli animali non umani potevano essere processati, ovviamente attraverso la difesa di avvocati umani; oggi nessun ordinamento occidentale contempla la possibilità che un non umano sia parte di un procedimento giudiziario. Ciò non significa che questi non possano essere oggetto di contese: può verificarsi esattamente come con qualsiasi altro ente che il diritto consideri oggetto (o bene mobile/immobile); insomma, nessun animale non umano può avanzare pretese giuridiche, ma tutti loro possono essere oggetto di pretese umane.
Negli Stati Uniti un gruppo di giuristi sta promuovendo azioni legali per conseguire il riconoscimento della personalità giuridica in capo agli scimpanzè[2]: tali tentativi finora sono stati frustrati dal rifiuto dei tribunali di applicare l’habeas corpus ai primati non umani, per concedergli la libertà dalla detenzione cui gli umani li sottopongono[3].
Insomma, non occorre fare poi tanta strada al di fuori del pianeta Terra per comprendere quali siano i rapporti giuridici tra umani e non-umani.
La questione giuridica non può prescindere da quella filosofica o giusfilosofica: si tratta di domandarsi quale sia il presupposto per il riconoscimento di diritti. Se applicassimo il concetto attualmente vigente, alla stregua del quale soltanto le persone umane hanno diritti, allora è evidente che il dibattito sarebbe stroncato in origine e non vi sarebbe speranza di estendere ad alcun extraterrestre alcun tipo di diritto.
QUALI ALIENI?
A questo punto si impone una classificazione: pratica assai detestabile largamente invalsa nel presente, che nel nostro caso non può purtroppo essere trascurata.
Se da un profilo strettamente formalistico il livello di sviluppo biologico-intellettivo della vita extraterrestre dovrebbe essere del tutto irrilevante (ufficialmente il diritto non discrimina in base al quoziente intellettivo), è evidente che all’atto pratico ciò sarebbe inverosimile e che, per contro, proprio il livello della forma di vita in questione determinerebbe vistose differenze di trattamento da parte dell’ordinamento giuridico.
L’ipotesi di confrontarsi con differenti tipologie aliene pone di fronte a un evidente paradosso: se è vero che la differenza di intelligenza non ostacola né limitai diritti riconosciuti agli umani, è altresì evidente che possediamo una innata tendenza ad attribuire maggior valore ai più intelligenti. Nessuno si sognerebbe oggi di portare in tribunale un’istanza di riconoscimento della personalità giuridica a una mosca o a un merlo, ma lo si sta facendo con i primati. Allo stesso modo nessuno si preoccupa di uccidere gli insetti mediante l’uso della propria auto, ma molti si preoccuperebbero di investire un cane.
La questione, dunque, è da distinguere in due casi separati, a seconda che la specie aliena in questione sia i) paragonabile all’essere umano, oppure ii) alla vita non umana; questi due casi, a loro volta, andrebbero suddivisi in due sottogruppi: da un lato specie “paraumane” più evolute/meno evolute, e, dall’altro lato, specie “paravegetali/paraanimali”.
Riassumendo, si prospettano le seguenti alternative:
a) più evoluta dell’essere umano
I) VITA SIMIL-UMANA
b) meno voluta dell’essere umano
a) vita simil-animale
II) VITA NON SIMIL-UMANA
b) vita simil-vegetale
QUALI DIRITTI?
A seconda della tipologia di vita con cui si abbia a che fare è evidente che il diritto si porrebbe in modo differente, verosimilmente accettando di riconoscere diritti soltanto alla categoria “apicale”, cioè la Ia: verosimilmente questa sarebbe anche l’unica categoria cui, per motivi pragmatici, non potremmo negare i diritti, essendo tendenzialmente più “potente” di noi.
Del resto storicamente il concetto di diritto nasce proprio come sottrazione all’arbitrio umano, dunque il primo problema che si porrà al momento della prima (o “ufficialmente”) interazione tra abitanti di pianeti differenti non dovrà essere rimesso alla valutazione scientifica, quanto a quella filosofica e giuridica. Immaginiamo che la prima forma di vita “ufficialmente” non proveniente dalla Terra sia un batterio in cui ci imbattessimo su Marte: uno scienziato sarebbe indotto a compiervi esperimenti, in nome della scienza e della conoscenza, ma prima di quell’azione si dovrebbe essere determinato cosa sia lecito e cosa no, o, per meglio dire, cosa sia morale e cosa immorale.
Primo problema: è lecito interferire con un batterio alieno? Se sì, in che modo? In che misura? A quale scopo? In altre parole, vale di più la conoscenza che l’esploratore (umano) potrebbe trarre, o l’autonomia e/o la sopravvivenza della forma di vita aliena?
Nell’universo di Star Trek c’è sempre stato un principio noto come “prima direttiva”, paragonabile a quello che nell’Eusebismo definisco “principio di non interferenza”: nella saga fantascientifica con questo precetto si vieta di interagire con forme di vita intelligenti che non hanno ancora sviluppato la “velocità di curvatura”, identificata con la tecnologia sufficiente per raggiungere altri pianeti abitati.
Sarebbe ragionevole ritenere che classificheremmo, quindi tratteremmo la vita aliena in modo paragonabile a quella terrestre, così considerando come i nostri animali organismi “animati” non civilizzati o industrializzati, adottando verosimilmente la parola e lo sviluppo tecnologico quali indici di riferimento. Ma quali trattamenti riserveremmo loro?
In caso di incontro fisico i simil-umani di tipo b) sarebbero probabilmente destinati a fronteggiare una sorte non dissimile da quella dei nativi americani, mentre quelli di tipo a) suscitano sicuramente questioni che non potrebbero essere superate senza una profonda riflessione filosofica e giuridica, semplicemente per la ragione che questi potrebbero godere di un potere sufficiente a impedirne il trattamento arbitrario.
Finchè si parla di alieni non simil-umani, o simil-umani di tipo b) l’incontro o la scoperta – perlomeno nel breve/medio termine – potrebbero basarsi soltanto sull’osservazione, ed eventualmente su una interazione limitatissima, come quella con singole sonde o astronauti; non così per i simil-umani di tipo a), gli unici che potrebbero autonomamente raggiungerci (o essere già qui).
Quali diritti potrebbe riconoscere il nostro ordinamento a una simile specie aliena? Per rispondere alla domanda occorre prendere in considerazione i principi e gli istituti fondamentali del diritto, perlomeno quelli condivisi a livello internazionale.
Non ci sarebbe alcun automatismo nell’estensione dei diritti (anche di quelli fondamentali) agli alieni, posto che questi sono – per definizione – “diritti umani”. Occorrerebbe recepire all’interno di ogni singolo ordinamento nazionale modifiche atte a estendere diritti e doveri anche agli E.T.: già, evidentemente in questo caso i nostri visitatori sarebbero passibili di divenire al tempo stesso titolari di diritti, ma anche di doveri, in particolare di osservanza alle norme vigenti.
Lo scenario che si realizzerebbe in questo caso potrebbe rappresentare l’applicazione pratica del cosiddetto “contratto sociale”: un’intera civiltà aderirebbe a un ordinamento, sopportando limitazioni della propria libertà in nome di una tutela e del riconoscimento di diritti da poter porre a fondamento di rivendicazioni.
Le diversità culturali tra specie di pianeti differenti sono (sarebbero) evidentemente eccezionali, così come i valori morali, dunque giuridici: potremmo ragionare di società che non hanno più bisogno del diritto, oppure che si ispirano a criteri di “sanzione sociale” (un po’ come avveniva, e ancora spesso avviene, in Cina), o comunque con un sistema di reazioni (sanzioni) non istituzionalizzato. Potremmo imbatterci in chi considera diritto inalienabile (un po’ come in USA avviene con il porto d’armi) uccidere, esattamente come la nostra società attualmente considera lecita la caccia e la macellazione: noi potremmo essere per loro ciò che per noi sono gli animali, oppure potrebbero semplicemente ritenere corretto, lecito e perfino diritto, compiere sacrifici, esperimenti o uccisioni a scopo alimentare, sui propri simili o sugli umani.
A questo punto è evidente che l’applicazione del diritto a questi “ospiti” non potrebbe essere lineare, ma dovrebbe tener conto di una serie di abitudini, aspettative e costumi, ma anche di concezioni, del tutto differenti, per cui si dovrebbe determinare quali rivendicazioni possono trovare spazio nelle nostre leggi e quali no, fermo restando che il primo problema con il quale confrontarsi sarebbe la discriminazione. Proveniamo da una lunghissima tradizione di discriminazione del “diverso”, laddove spesso la stessa idea di diversità è stata istituita ad arte o strumentalmente: non c’è alcun motivo per dubitare che gran parte dell’umanità tenderebbe ad adottare atteggiamenti discriminatori anche nei confronti di questa diversità.
In effetti la riflessione sul diritto applicabile agli alieni finisce per essere una sorta di cartina al tornasole di tutte le paure, le difficoltà di integrazione, le discriminazioni e le contraddizioni della nostra società, e la conclusione più logica è che “noi” (inteso come la somma dei terrestri) saremmo probabilmente disposti a riconoscere diritti soltanto ad alieni in grado di autotutelarsi, e perché in quel caso non avremmo scelta.
PROSPETTIVE E PROPOSTE
Il modo migliore per affrontare qualsiasi tipo di relazione extraterrestre consiste nell’individuazione di principi assoluti, atti a rapportare qualsiasi condotta umana con qualsiasi forma di vita non umana: già da ciò si deduce che oggi non possediamo la preparazione culturale né giuridica per affrontare la questione. Il nostro diritto tuttora si limita a ignorare tutto ciò che non è umano, e in ciò il paradosso che nemmeno una specie aliena più avanzata della nostra potrebbe ricevere automaticamente tutela dalle nostre leggi.
Non ci mancano semplicemente gli istituti giuridici per disciplinare rapporti con specie extraterrestri, bensì la cultura e gli stessi principi fondamentali da cui trarre ispirazione per disciplinare una convivenza, che certo non avremmo neppure la maturità sufficiente a gestire prescindendo dal diritto.
Viceversa, la prospettiva di incontrare forme di vita extraterrestri dovrebbe indurre profonde riflessioni: come trattare una pianta o un animale alieno? Farne esperimenti per appagare la curiosità umana? Trasformare in cavie i primi esemplari E.T. catturati? Interferire con lo sviluppo di altre forme di vita o con il loro habitat? Sfruttare ambienti extraterrestri per finalità terrestri?
Mentre la tecnologia evolve, dà molto su cui riflettere la direzione in cui si muove la cultura: da sempre nei luoghi della fantascienza abbiamo assistito ad invasioni aliene in cui perfidi extraterrestri cercano di sfruttare questo pianeta per salvarsi dalla distruzione del loro, oppure per attingere elementi vitali, condannando in questo modo noi. Eppure oggi si parla di sfruttare economicamente la Luna, Marte, gli asteroidi, per ricavare guadagno dai materiali o attraverso viaggi o soggiorni in quei luoghi: siamo sicuri che nel futuro tracciato su questi binari non siamo proprio noi quegli alieni “cattivi”?
La proposta eusebista è semplice: rimuovere le barriere della discriminazione e introdurre nel diritto un principio di rispetto assoluto, nel senso di indiscriminato e non strumentale, bensì fine a se stesso.
Se saremo capaci di rimuovere le barriere mentali e giuridiche tra le specie che già adesso popolano la Terra, e che vengono costantemente concepite come “altro”, o “diverso”, allora saremo pronti ad affrontare qualsiasi interazione, sia essa già esistente, oppure nuova, con qualsiasi entità.
Dovremmo in primo luogo rinunciare a concepire gli esistenti come ordinati in gerarchie, delle quali qualcuno può essere arbitro: in tal modo sarebbe coerente rivendicare il diritto a esistere indisturbati per noi stessi, nei confronti di specie più avanzate, così come noi rinunceremmo ad interferire con, o a disporre di, altri. A questo punto qualsiasi rapporto sarebbe gestito su basi paritetiche e non occorrerebbe neppure alcun adeguamento del diritto per includervi nuovi “enti”, essendo esso già formulato in modo aperto e non discriminatorio.
CONCLUSIONI
Esattamente come una persona che non ha risolto i propri conflitti interiori non potrà mai porsi in modo del tutto corretto nei confronti di chi lo circonda, se l’umanità non sarà in grado di rapportarsi correttamente al suo interno, è certo che non potrà farlo con alcun ente fuori dalla Terra.
In questa transizione da una cultura, anche giuridica, di predominio e di legge del più forte travestita da giustizia universale, verso una cultura di rispetto assoluto e incondizionato il diritto sarà inevitabilmente uno strumento, ma comunque rappresenterà una disciplina essenziale attraverso la quale determinare la certezza della mèta.
Se si concorda che il principio cui tendere è quello del “neminem laedere”, allora occorre perseguirlo con coerenza, a partire dall’esigenza fondamentale di comprendere che quel “neminem” deve assumere valore assoluto, anziché relativo: finchè continueremo a considerare “qualcuno” soltanto chi decideremo noi, il precetto resterà lettera morta.
E la dimostrazione di quanto sopra, cioè dell’impossibilità di tutelare alcuno, se non si tutelano tutti, è la società contemporanea: ben lungi dal rispettare tutti, essa si basa invece proprio su frustrazione, sfruttamento, asservimento, danneggiamento, oggi elevati a ragione di vita. Basti pensare alla schizofrenia insita nel promuovere valori costituzionali quale il diritto alla salute, e poi considerare lecito guadagnare sulla vendita di sigarette o utilizzare veicoli altamente inquinanti, o produrre e vendere come “cibo” prodotti che provocano malattie e che implicano gravissimi danni ambientali, dunque alla salute collettiva.
Per adesso le nostre interazioni fuori dalla Terra sono consistite nell’inquinarne l’orbita con migliaia di detriti spaziali, depositare bandierine e altri cimeli in varie parti del sistema solare, prelevare campioni, progettare colonizzazioni, prelievi di sostanze, etc.
Se non invertiremo le nostre premesse culturali e filosofiche, dovremmo soltanto sperare di non incontrare specie aliene più progredite, che potrebbero non gradire il nostro modo di relazionarci, mentre specie meno tecnologiche dovrebbero sperare di non essere da noi raggiunte per poter sopravvivere.