IL PARADOSSO DELLA RIEDUCAZIONE CARCERARIA

 PRISON

Uno dei tanti indici della cultura e del progresso di una società, oggi, consiste nell’osservazione del trattamento riservato alla sua popolazione carceraria. Non intendo entrare, in questa sede, nel merito di domande che per essenzialità e rilevanza richiederebbero trattazioni ben più approfondite e corpose, quali, per esempio, se sia necessaria l’istituzione carceraria, quali le alternative, o il trattamento adeguato in tali strutture. In questa sede mi limiterò alla questione della rieducazione, una delle molte pretese della nostra Costituzione (art. 27, comma III: “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”) rimaste lettera morta.

La cosa più sorprendente non è tanto il fatto che questo precetto sia rimasto lettera morta, bensì che da decenni ci si interroghi sul perché, e sul “come” intervenire per rimediarvi: la risposta è semplice, talmente scontata da essere evidentemente scartata a priori.

Come potrebbe, qualcuno che non è mai stato educato, avanzare la pretesa di “rieducare” qualcun altro? Da questo dubbio sorgono alcune considerazioni.

L’EDUCAZIONE SOCIALE

Cosa significa, di preciso, essere “educati” (d)alla società? Evidentemente si intende l’adesione al modello dominante vigente in un determinato contesto, individuato spazialmente e temporalmente: un cittadino modello di Roma, nel V sec. A.C., oggi sarebbe considerato un criminale sotto molti aspetti, e probabilmente vale il viceversa. Allo stesso modo, un comportamento “normale” per il membro di una tribù contemporanea che vive allo stato brado non sarebbe accettabile in Europa.

Insomma, a parte l’ovvia astensione dall’infrangere le leggi, il buon cittadino è considerato quello che aderisce alla mentalità comune, ed è verso tale meta che si cerca di ricondurre chi, essendo stato condannato, si considera un criminale, cioè qualcuno bisognoso di essere “ri”educato ai valori civici.

Il problema della società occidentale, non soltanto contemporanea, è giusto il modello sociale proposto. Pensiamo un attimo a quale sia la normalità sociale che la nostra tradizione ci ha inculcato, fin dai tempi di Roma antica: l’imposizione sull’altro, l’espansione militare, l’uso indiscriminato della natura a proprio piacimento, l’accumulo di soldi e potere, il possesso di beni quale indicatore di status.

Oggi cinema e televisione, che sono i principali veicoli della cultura e dell’informazione, che modelli propongono? Trasmissioni a premi in denaro, opere in cui il “lieto fine” consiste nell’aver conseguito una posizione di spicco sugli altri, più soldi, più beni, un partner, etc.

Il lavoro che nobilita l’uomo: un’altra leggenda contemporanea. La realtà del mondo odierno è un lavoro a qualunque costo. Un lavoro per nobilitarsi? O, piuttosto, per mantenersi? Per mantenersi? O, piuttosto, per arricchire altri?

Se le nostre abitazioni non fossero di cemento e non ci fossero strade d’asfalto, e magari se vivessimo dove le condizioni climatiche ci sono favorevoli, spazio vitale e cibo non sarebbero qualcosa da acquistare e la nostra società non sarebbe un luogo in cui si può entrare soltanto a pagamento: pagamento dei medici, del cibo, perfino della casa (non che, se pagati con le tasse, questi siano regalati).

La nostra “educazione sociale” consiste nel far sì che cresciamo senza porci domande, ripetendo in un circolo vizioso gesti e atti di chi ci ha preceduto: facciamo così poiché abbiamo visto fare così.

RIEDUCARE A COSA?

Ecco dunque profilarsi il paradosso della rieducazione. La delinquenza rappresenta il sintomo di cui la nostra cultura dominante è la causa: i nostri politici dileggiano gli oppositori quotidianamente e pubblicamente, ma puniamo chi offende un’altra persona; le pubblicità ubique ci spingono a volere sempre più oggetti, ma puniamo chi per impossessarsene viola la legge; i nostri film onorano chi fa vendetta o si impone con la forza, ma puniamo le persone che usano la violenza; degradiamo sistematicamente l’ambiente da secoli, chiamandolo progresso, ma puniamo chi inquina al di fuori della legge; massacriamo miliardi di animali ogni anno per i più svariati motivi velleitari, ma puniamo chi dà un calcio ad un cucciolo.

Come può, una società ad elevato tasso di schizofrenia, avere la pretesa di “ri”educare qualcuno, se non è neppure capace di rendersi conto che quello è semplicemente il prodotto della sua stessa “educazione”?

Le linee di demarcazione tra lecito e illecito, in una società che fa dell’arbitrio la sua bandiera, non possono che essere a loro volta arbitrarie, e dunque come ci si può aspettare che ciascuno le accetti così come un legislatore ha deciso di collocarle?

Come si può, dopo essersi impegnati per tutta la vita di una persona, a convincerla che ha bisogno di oggetti costosi e inutili, spiegarle che deve desiderarli soltanto se dispone di mezzi giuridicamente leciti per acquistarli?

Ma se anche tutte le persone del mondo acquistassero soltanto i beni che si possono permettere in modo lecito, la società non sarebbe disfunzionale?

La stigma sociale riservata ai criminali, condannati per aver infranto la legge, è soltanto vuota forma, sterile imitazione, perpetuazione di un’etichetta: io, che scrivo queste righe, ho probabilmente danneggiato la salute di molte più persone usando tutta la plastica, gli oggetti industriali e tecnologici che ho usato, rispetto a una persona che ha vissuto la sua vita nella cosiddetta “povertà”, e, una volta nella vita, ha dato un pugno a un altro uomo.

Eppure, se accendiamo la televisione e apprendiamo che il prezzo della benzina è aumentato, cadiamo in depressione, e ci preoccupiamo poiché dovremo inquinare un po’ meno, quindi danneggiare un po’ meno: noi siamo quelli che dovrebbero rieducare i criminali. Rei che educano altri rei ad esserlo in modo da rispettare le leggi (scritte dai rei).

I MEZZI DI RIEDUCAZIONE

Di quali strumenti può avvalersi, un simile sistema di “rieducazione”, se non degli stessi che hanno causato il male che cerca di reprimere? Lavoro, religione, istruzione.

Il lavoro, come strumento per inserirsi in un sistema autodistruttivo e alienante.

La religione, vuota forma priva di sostanza.

L’istruzione, unico valore assoluto, sebbene contaminata dalla vacuità generalizzata.

Gli strumenti, per definizione, tali sono, e devono dunque essere asserviti a dei fini, mentre invece finiscono per essere fini in se stessi: il lavoro per il lavoro, perché si deve produrre a tutti i costi, anche cose che non servono, anche beni dannosi, anche creando bisogni o dipendenze. La religione, che è fede cieca per definizione e che non ammette pensiero indipendente, poiché ne sarebbe distrutta.

Solo l’istruzione, conferendo alla persona qualcosa di permanente, è un valore assoluto, benchè decidere su “cosa” e “come” implichi già l’adozione di filtri.

UNA SOLUZIONE POSSIBILE

L’unica soluzione, come sempre, è quella di agire non già sui sintomi, che possono essere soltanto repressi, bensì sulle cause: cambiare la società significherebbe non trovarsi neppure nella necessità di rieducare alcuno, per il semplice motivo che in un mondo ideale i massimi valori cui ambire sarebbero incarnati dal rispetto dell’altro da sé e dall’equilibrio nel rapportarvisi.

Il problema non è il sistema carcerario, ma quello sociale: illudersi di poter migliorare il primo, senza incidere sul secondo è un errore tipico del nostro tempo, al pari dell’additare la classe politica come responsabile dei problemi di un paese, senza rendersi conto che essa lo esprime e lo rappresenta.

Il giorno in cui saremo sufficientemente consapevoli da rieducare qualcuno, probabilmente non ce ne sarà più bisogno, se non, forse, marginalmente: sarà il giorno in cui avremo imparato a trarre piacere, benessere e realizzazione da quelli altrui, ad osservare dentro di noi, a dare un senso alla nostra esistenza, a praticare il rispetto e l’equilibrio. Sarà il giorno in cui avremo smesso una volta per tutte di cercare di dare risposte semplici a questioni complesse.