Mi sono sempre domandato per quale motivo un uomo medio sia capace di lavare, lucidare, smontare e montare la propria auto o moto, ma, se messo di fronte alla pulizia dei fornelli domestici, sia assalito da una sorta di crisi mistica.
Nondimeno una donna media è in grado di manipolare qualsiasi tipo di arnese e fluido di uso domestico: dal travaso di una latta di olio in bottiglie e oliere varie, al tirare a lucido una padella; eppure la stessa donna (media), di fronte all’ipotesi di far benzina da sola, inizi a tentennare, per poi respingere direttamente al mittente l’eventualità di sostituire la ruota di un’auto.
C’è qualcosa di affascinante nel fatto che tutte le faccende di cui sopra riguardino apparecchi meccanici, oggetti di metallo e prodotti per la pulizia: in pratica si tratta di azioni analoghe in tutto e per tutto, semplicemente svolte in contesti differenti.
Non penso che la maggior parte di questi lavori richieda titoli qualificanti o particolari esperienze, né la prima, né le volte successive: credo piuttosto che anche in queste situazioni si manifesti semplicemente uno degli innumerevoli pregiudizi che caratterizzano la nostra quotidianità, impedendoci di essere realmente liberi e, quindi, di realizzare scelte del tutto autonome.
Da dove ha inizio tutto ciò? Dal nostro innato bisogno di creare categorie, gruppi nei quali distinguere chi – in realtà – ci assomiglia, per poterlo considerare “diverso”: basta individuare una caratteristica discriminante e tracciare una linea.
Una volta che, nella nostra percezione, qualcosa afferisce a un gruppo del quale noi non ci consideriamo parte, viene automaticamente esclusa dal nostro ambito di interesse, cosicchè finiamo per definirci “incapaci”, mentre in realtà non abbiamo mai neppure preso in considerazione concretamente l’ipotesi di realizzare davvero quella tal cosa da soli.
Come fare a comprendere se la nostra rinuncia dipende da effettiva incapacità, o da semplice pregiudizio? Un metodo infallibile è quello di verificare se, prima di tirarci indietro, abbiamo realmente provato, oppure se abbiamo semplicemente detto “no” senza nemmeno domandarci “come”.
Una delle conseguenze più pericolose del basare la propria autostima sul pregiudizio si manifesta allorchè cerchiamo un cambiamento e cominciamo a rivolgerci agli altri, sperando di ricevere una sorta di “illuminazione” o “rivelazione”. In questi casi il pericolo è intrinseco nella debolezza che ci affligge durante le principali transizioni della vita e che predispone alla dipendenza da falsi profeti.
Contare sulle proprie capacità non è soltanto fondamentale per costruire la personalità, ma anche per migliorare le interazioni, poiché il rapporto con gli altri viene vissuto più consapevolmente e con minore dipendenza e strumentalità: non siamo più malati o guaritori, ma una collettività di individui capaci di dare e ricevere con equilibrio e consapevolezza.