L’INADEMPIMENTO DEL CONTRATTO SOCIALE

contratto sociale

Secondo una corrente di pensiero ampiamente diffusa nella filosofia del diritto, le nazioni si fonderebbero sul contratto sociale. Più precisamente, l’obbedienza alle norme e il pagamento dei tributi sarebbero da considerare controprestazioni che i cittadini sono tenuti a effettuare nei confronti dello stato, affinchè questo riconosca e tuteli gli individui a sua volta. Il medesimo principio giustificherebbe la rinuncia all’autotutela, in nome di quella, eteronoma, garantita dalle istituzioni: insomma, nessuno si fa giustizia da solo perché lo stato è dispensatore esclusivo di giustizia.

Storicamente la concezione contrattualista del diritto ha conosciuto diverse critiche, in particolare collegate con i presupposti della stipulazione: posto che la validità di un contratto discende dalla libera manifestazione di volontà dei contraenti, uno dei requisiti fondamentali è appunto l’esistenza di detta manifestazione. Eppure nessuno, nascendo, è richiesto di esprimere un consenso. Tra l’altro ciò dà luogo a un secondo problema: la manifestazione del consenso nei soggetti incapaci. Neonati, portatori di disabilità mentali, o altri soggetti particolari sarebbero impossibilitati a sottoscrivere il contratto sociale. In realtà, a mio avviso, queste critiche sarebbero già di per sé sufficienti a escludere la possibilità di un contratto: il contratto, semmai, sarebbe alla base della società, ma in questo caso ogni sua modifica implicherebbe una nuova accettazione. Insomma, il discorso si complicherebbe alquanto.

Dove pochi (o nessuno) si sono spinti è nella considerazione di tutto ciò che non è umano: le nazioni sono fatte da esseri umani, e soltanto questi avrebbero potere/dovere di sottostare al contratto sociale. Eppure gli stati che professano se stessi sovrani assumono decisioni anche in materia di “non umani”: animali e ambiente. Se, quindi, la teoria del contratto sociale potrebbe giustificare in qualche modo l’inclusione di umani di ogni età e condizione nel novero dei contraenti, e, quindi, dei soggetti vincolati al rispetto dei precetti e all’adempimento delle prestazioni richieste, non si comprende quale sarebbe la fonte del diritto dello stato nei confronti di chi quel contratto non potrebbe – anche volendo – comprenderlo né stipularlo né adempierlo.

Se le cose stanno come sopra, allora il contratto, nei confronti di tutti i soggetti incapaci di intenderlo e sottoscriverlo, è da considerarsi inesistente, e gli atti imposti per volontà statale sono dei veri e propri arbitri, cioè atti non giustificati da alcun tipo di principio, ma dettati soltanto dall’imposizione forzata.

C’è, infine, un aspetto degli ordinamenti statali che non può in alcun modo contemperarsi con l’esistenza di una volontà contrattuale: il principio fondamentale di qualsiasi contratto è che inadimplenti non est adimplendum. A colui che è inadempiente non è dovuto alcun adempimento.

Ma se lo stato omette di erogare servizi, o giustizia, o compie sperequazioni, o disattende la volontà dei cittadini, è forse diritto di questi disattenderne le leggi o pagarne i tributi? La risposta, per quanto paradossale, è: no. Senza corrispettività non può esserci contratto. Ma, mentre il cittadino è punito se non obbedisce alle norme e se non paga i tributi, qual è la sanzione nel caso in cui lo stato non ottemperi ai propri doveri? Nessuna. Anche perché in questo “contratto sociale” non c’è bilateralità: il potere sta tutto da una parte sola. È sempre lo stato che, amministrando e somministrando (o non somministrando) la giustizia, determina i rimedi dei cittadini. Soltanto che fra questi non è mai prevista la facoltà di disattendere il contratto sociale a propria volta.

Una società più libera sarebbe sicuramente quella in cui lo sciopero dell’obbedienza alle norme e del pagamento dei tributi fosse riconosciuto come diritto, a fronte dell’omissione di quegli adempimenti che, invece, sarebbe dovere dello stato effettuare.

Non c’è modo in cui si possa legittimare decisioni di alcuna autorità che implichino ricadute su ciò che umano non è, se si vuole in qualsiasi modo rivendicare l’esistenza di un contratto sociale. Qualsiasi pratica che implichi atti dispositivi su animali non umani e ambiente, e in particolar modo quelle di natura definitiva/esclusiva, non può trovare legittimazione entro la teoria contrattualista: per conseguenza, si dovrebbe limitarne l’ambito di applicazione all’umanità.