Quanti giorni della nostra vita siamo in grado di ricordare? E quanti, invece, sono quelli irrimediabilmente perduti nelle pieghe dei ricordi?
Quante delle azioni che compiamo quotidianamente derivano da nostre scelte consapevoli, autonomi e spontanee, e quanti, invece, rappresentano semplicemente la reiterazione di modelli, gesti e comportamenti che ci sono stati trasmessi dall’esterno?
La civiltà occidentale contemporanea, peraltro sulla scorta di un modello che ha le proprie radici almeno ai tempi di Roma antica, si fonda sull’omologazione e sulla ritualizzazione: in questo modo è possibile “funzionare” in modo più coerente e potenzialmente costruttivo come società, ma ciò presupporrebbe il perseguimento di un fine, quale, ad esempio quello del cosiddetto progresso morale e materiale. Per dirla in altri termini si tratta di una sorta di scambio, di un do ut des: io, individuo, rinuncio a parte della mia libertà e autonomia, mentre tu, collettività, ti fai garante del progresso collettivo. Come viene sostenuto nella teoria giusfilosofica del contratto sociale, ciascuno sopporta delle limitazioni in cambio di qualcos’altro: senza corrispettivo non ci sarebbe neppure interesse alla stipulazione di questo contratto.
Prendiamo come esempio il lavoro: storicamente l’essere umano non ha mai considerato l’obbligo di lavorare come la soddisfazione dei propri desideri, semmai il contrario. Si pensi al monito del dio vendicatore (e sessista, taluni direbbero oggi) che espulse Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, condannando il primo a lavorare con sudore (e la seconda a partorire con dolore): si può pertanto ben affermare che proprio dall’alba dei tempi detestiamo il lavoro. Eppure le nostre vite sono improntate a quello: la maggior parte del tempo che respiriamo su questa terra la trascorriamo a lavorare, e, proprio quando ci va bene, siamo giusto in grado di decidere che lavoro fare.
Immaginiamo che la nostra società sia una nave: ai tempi di Roma antica ci avrebbero ordinato di remare; oggi ci basta pagare il prezzo del biglietto… lavorando. Non saprei dire se sia più libero (oppure più schiavo) chi siede su una panca muovendo un remo o chi sta dietro a una scrivania o in una fabbrica.
Ci raccontiamo la favola consolatoria che lavoreremmo per vivere, ma quanta parte dei nostri guadagni finisce per soddisfare esigenze fondamentali/reali, anziché illusorie/indotte? Quanto spendiamo per mangiare o abitare, e quanto, invece, per vestire (alla moda), spostarci, collezionare oggetti, intrattenerci, truccarci, colorarci i capelli, le unghie, la pelle, adonarci di gioielli e orpelli di ogni sorta, fare regali, assicurarci, curarci (o illuderci di farlo) da mali creati dal nostro stesso stile di vita, etc.? E perfino di quei bisogni reali, come mangiare, ignoriamo il vero significato, convinti che sia giusto tutto ciò che è normale, ma “normale” significa eteroimposto, cioè non deciso autonomamente e quindi non frutto di una scelta razionale o critica. E anche nel mangiare e nell’abitare, bisogni apparentemente essenziali, quanto siamo autonomi e consapevoli nello scegliere? Quanto, invece, ci limitiamo a eseguire ciò che altri hanno istituzionalizzato?
Ci viene insegnato perfino quando si deve festeggiare: per l’individuo la nascita, per le donne una data, per le mamme un’altra, per i padri un’altra ancora, poi una per gli innamorati, per lo Stato la fondazione, poi le varie divinità, etc. Anche in quali occasioni soffrire è attentamente prescritto: per la morte dei congiunti, dei personaggi famosi, dei governanti, dei nostri concittadini ma soltanto si è vittime di delitti raccapriccianti o di attentati (o presunti tali). È parimenti consolidato che non occorre soffrire per le pene dei cattivi, per la morte dei “nemici”, o di quelli a cui non siamo affezionati o che non vediamo in televisione o al cinema.
Tutto è ritualizzato, e, dalla nascita alla morte, l’istinto e le opinioni non occorrono: la donna umana è l’unica a non saper partorire autonomamente, i suoi figli gli unici del creato ad avere bisogno di vaccini e medicinali; allo stesso modo l’essere umano che rende il proprio corpo alla terra non può farlo senza autorizzazioni, tasse, carte bollate, bare di legno e metallo, cimiteri di cemento autorizzati, e tanti, tanti soldi.
Tra la nascita e la morte tutti i giorni che trascorriamo a celebrare i riti quotidiani scorrono inesorabilmente uguali a se stessi, salvo quelli che ci viene prescritto di imprimere nella memoria, come il matrimonio, il diploma, la laurea, etc.
Insomma, che siamo schiavi ai remi oppure al lavoro con il quale ci siamo comprati il biglietto, poco cambia: in entrambi i casi non siamo noi a decidere la rotta della nave sulla quale siamo imbarcati.
A questo punto dovremmo forse domandarci quale sia il prezzo da pagare per scendere dalle nostre navi: dev’essere sicuramente un prezzo altissimo, visto che preferiamo ad esso la schiavitù. Probabilmente la cosa che più ci terrorizza è sentirci diversi: per questo motivo accettiamo di barattare la libertà e l’autonomia di pensiero con l’omologazione e la dipendenza, a patto di non sentirci estromessi dal contesto in cui apparteniamo. Naturalmente, a parte la paura, ci trattiene l’investimento iniziale necessario per emanciparsi, cioè la maturazione di un senso critico e la volontà, ma anche la pazienza, di comprendere se stessi e le proprie reali aspirazioni, accettando di mettere in discussione tutto e ogni cosa.
Come sempre, la nostra volontà è l’unico limite.