L’antropocentrismo non esiste (più). O forse esiste nella mente di alcuni pensatori, e di molti contestatori. Il medioevo cristiano ha esaltato l’essere umano quale prodotto della volontà divina; in altri termini, alcuni uomini hanno deciso che gli uomini fossero sovraordinati a tutto il resto: animali e ambiente, in particolare. Qualcuno potrebbe guardare con sospetto a questa “curiosa coincidenza”, visto il palese conflitto di interessi. Ma sbaglierebbe, poiché non è l’uomo a proclamarsi centro della creazione, bensì Dio; o, per meglio dire, alcuni uomini hanno sostenuto che Dio lo avesse stabilito.
Comunque, dicevamo, il medioevo cristiano e l’essere umano al centro della creazione: l’antropocentrismo che vuole tutto al servizio degli umani, l’homo mensura ravvisato da Protagora quale interprete di tutto ciò che esiste.
Ma l’antropocentrismo medievale non è privo di contraddizioni, poiché, se è vero che all’atto pratico questi è preordinato a tutto il resto dell’universo, da un punto di vista prettamente teorico sulla sua figura incombe quella della divinità, al cui cospetto anzi si è insignificanti. Cosa comporta tutto ciò? Le azioni sono improntate a Dio, ma in concreto rimesse all’arbitrio dell’essere umano (di cui la religione rappresenta in effetti una promanazione): è lecito disporre di chiunque/qualunque cosa non umana per volontà umana, ma è altresì lecito disporre di qualunque essere umano per volontà divina.
Con la fine del medioevo cristiano e l’avvento del Rinascimento l’uomo, scisso dalla divinità, assurge a una centralità dettata dall’intelletto. Il fondamento della superiorità che prima veniva “dall’alto”, cioè dalla potestà divina, è ora rimesso alle sole attribuzioni umane: è l’Umanesimo.
Dal punto di vista intellettual-culturale siamo ancora nel pieno dell’umanesimo, poiché il paradigma più largamente invalso, anche presso quei pensatori che si professano “di larghe vedute” o che si ripropongono di diffondere l’uguaglianza nel mondo, si fonda su una disuguaglianza: prima gli esseri umani, poi tutto il resto. Tra il XX e il XXI secolo questo paradigma è stato messo sempre più in discussione, ed è probabile che tramonti definitivamente entro il secolo presente: le conseguenze (sempre più) tangibili di questo modello di condotta accelereranno la transizione. Più l’essere umano si rende conto che l’essersi considerato proprietario e padrone di tutto il resto ha condotto alla catastrofe biologica, ambientale, e umana, più sarà indotto a stigmatizzare l’atteggiamento che ha condotto a tutto ciò.
Ma l’antropocentrismo e l’umanesimo sono rimasti soltanto nelle idee, poichè nelle azioni si è affermato un nuovo modello: l’econocentrismo.
Se è vero che l’economia è un portato umano, così come umani sono gli interessi sottesi (cioè: fare soldi), è pur vero che in questo schema che si è inventato l’essere umano ha finito per essere soverchiato, divenendo una pedina sacrificabile in nome di interessi (economici, appunto) altrui.
Apparentemente viviamo in un mondo dominato dall’idea che la politica, le leggi e le azioni debbano essere improntate al rispetto dell’essere umano, in base al suo primato intellettuale e divino (antropocentrismo/umanesimo). Ma di fatto, e contrariamente al dettame delle migliori carte costituzionali del mondo, l’essere umano è rimesso all’economia.
Facciamo alcuni esempi:
1) Lavorare provoca stress, fatica, limita i rapporti sociali, implica competizione, ed è considerato dai più un male “necessario”. Necessario per cosa? Per fare soldi.
2) Fumare uccide. È un fatto notorio e comprovato. Ma è consentito vendere sigarette, e produttori e stati si arricchiscono.
3) L’inquinamento uccide. La costruzione e la vendita di automobili sono incoraggiate dai sistemi politici in quanto fonti di profitto e di alimentazione dell’industria.
4) Molti prodotti venduti come cibo provocano numerose patologie conclamate, ma la loro vendita non è vietata.
5) L’abbattimento di foreste per produrre carta, mobili, pascoli, etc., danneggia la salute di tutta l’umanità, ma non è vietato.
Ciò che accomuna tutti gli esempi di cui sopra è che il profitto economico (lucro) è anteposto al benessere umano, e perfino alla sopravvivenza di singoli individui, intere popolazioni, e, volendo adoperare un minimo di lungimiranza, della stessa specie.
Dalle scelte collettive a quelle individuali poco o nulla cambia: scegliamo di rinunciare alla compagnia delle persone care per lavorare e così guadagnare di più, ambiamo ad essere più ricchi degli altri, ci facciamo corrompere, siamo inclini a offrire il nostro favore a chi è più ricco in generale, e può farci arricchire, in particolare, anziché a chi non ci prospetta alcun ricavo economico.
Pecunia mensura: la nuova lente di ingrandimento, ciò a cui tutto deve essere rapportato, oggi, è la dimensione economica. Professiamo valori morali che pongono al centro di tutto il prossimo, eppure la maggior parte dei nostri sforzi è volta ad accumulare denaro, anziché a dedicare attenzioni ai nostri simili (o non simili). Nei fatti la nostra stessa morale è imbevuta di econocentrismo, poiché è nel lucro che riconosciamo il bene supremo e il fine di ogni azione. Non nell’uomo. Non negli animali. Non nell’ambiente. Nel lucro.
Non abbiamo perso i valori: semplicemente abbiamo fatto assurgere a fine principale quello che era nato come semplice mezzo, cioè il denaro.
L’economia rappresenta l’istituzionalizzazione del denaro, quale vero e proprio sistema dotato di una referenzialità assoluta: ecco che la crisi economica si trasforma in crisi di valori, e la destabilizzazione che si avverte non è quella legata alla compromissione di un semplice mezzo, bensì dell’intero sistema di valori cui era stata improntata l’aspirazione umana.
Perfino chi ritiene che l’uomo si sia impropriamente erto a padrone del tutto, adoperando quale criterio discriminatorio l’appartenenza alla sua specie sbaglia, poiché neppure lo stesso essere umano è (più) sovraordinato alla sua creatura, cioè l’economia.