PREMESSE
C’erano una volta gli storpi e i menomati. Poi sono diventati handicappati. Quindi invalidi. Poi disabili. Infine diversamente abili.
C’è un fenomeno sociale, caratteristico degli ultimi decenni e figlio del perbenismo dilagante, che porta a equivocare forma e sostanza, sintomo e causa: il linguaggio “politicamente corretto”.
Nel Corso dei decenni abbiamo creato e accantonato costantemente nuovi termini per designare categorie di persone “diverse dalla norma”, e, in quanto tali, soggette a discriminazione.
TESI
La nostra società non è capace di accettare ciò che è diverso, e la riprova è che ogni volta che si inventa un termine nuovo, in breve esso diviene desueto poiché la rimozione del sintomo, cioè l’utilizzo di un nomen differente, non interviene sulla causa.
Il perbenismo linguistico (e non solo tale) sottende un approccio dittatoriale e presuntuoso nei confronti dell’altro da sé, ed è quindi la dimostrazione della profonda discriminazione insita in chi vi ricorre.
Una persona senza una gamba può essere chiamata storpia, invalida, o perfino super abile: la sua condizione non cambia in alcun modo. Ma il problema non è se la sua condizione sia o meno analoga a quella di n altri individui: il problema è soltanto se ciò possa giustificare una discriminazione.
Nell’attribuire rilevanza al nome, e nello scegliere nomi che “mascherino” le diversità o le minorazioni, non facciamo altro che dimostrare di temere una determinata condizione, e di esorcizzare le differenze cercando di ricondurre tutto alla “normalità”, perlomeno a livello linguistico.
Il problema è che ci nascondiamo dietro a definizioni asettiche e politicamente corrette (perlomeno per la breve durata prima dell’inevitabile inflazione), poiché – segretamente – rifuggiamo l’idea di poter considerare nostro pari chi è differente. Ma la questione non è se noi, vedendo una persona sulla sedia a rotelle, esclamiamo: “Un handicappato!”, o “Un diversamente abile!”, oppure anche “Poverino!”. Il problema è che noi dovremmo esclamare: “Un’altra persona!”, anziché utilizzare una caratteristica altrui per creare etichette, discriminazioni o addirittura definizioni.
PIACERE E RISPETTO: L’ETERNO EQUIVOCO
Il privilegio della forma sulla sostanza non è frutto della casualità: abbiamo letteralmente bisogno di ostentare il rispetto che in concreto non proviamo e non manifestiamo.
Siamo affetti da profonda confusione, e questo ci rende facilmente manipolabili: sia nei confronti di altri umani che di animali non umani assistiamo continuamente alla produzione di campagne “di sensibilizzazione” volte a subordinare (direttamente o indirettamente) il nostro convincimento che sia da rispettare solo ciò che (o chi) ci piace. Confondiamo “piacere” con “rispettare”.
Ci sembra normale privilegiare i nostri parenti a danno di sconosciuti, nutrire i nostri animali domestici con altri animali che non conosciamo, lottare per i diritti delle categorie cui riteniamo di appartenere, sentirci offesi dalle critiche nei confronti di gruppi cui aderiamo, etc.
Se non ti piace vedere due umani dello stesso sesso scambiarsi effusioni sei “omofobico”. Se ami gli animali non devi mangiarli. Se chiami uno “negro” sei razzista.
La nostra società non sa fare a meno delle etichette, e quindi, mentre educa i propri membri, sin dalla nascita, ad aderire pedissequamente a modelli eteroimposti e a categorie stereotipate, poi adopera le stesse armi per reprimere e condannare il proprio frutto avvelenato: come “buoni” cittadini occidentali dobbiamo sentirci a posto comprando cose inutili, pagando mutui per vite intere, lavorando – costi quel che costi – per tutto quello, procreando e sposandoci. Se non sei in quel modello, sei – o dovresti sentirti – un emarginato… o perlomeno così dicono i film, le canzoni, le trasmissioni tv, i giornali, le riviste, i vicini, i colleghi, etc.
Ed ecco compiuto il miracolo: una persona omosessuale ambisce a stipulare quel contratto chiamato matrimonio che la società inculca ai suoi membri come status quo cui ambire.
Un disabile si sente di nuovo “cittadino” quando viene reinserito nella schiavitù del lavoro, che è il mantra della società capitalista.
Come le donne islamiche che, allevate in culture che sottendono in ogni aspetto la normalità e l’utilità dell’indossare un velo, si sentono libere nello scegliere loro stesse di indossarlo, sentendosi “inappropriate” senza. Proprio come un qualsiasi occidentale si sente libero indossando abiti che ha scelto e si sente a disagio nella nudità: non per un disagio spontaneo, bensì – semplicemente – poiché permeato da una cultura che depreca la nudità.
La nostra società, quindi noi, fallisce continuamente nel tentare di insegnare ciò che essa stessa non conosce: il rispetto.
Come potremmo insegnare a rispettare il “diverso”, se continuamente avalliamo il concetto che soltanto il “simile” merita il nostro aiuto e la nostra benevolenza? Come possiamo insegnare che chi uccide in guerra un’altra persona è un eroe, e chi uccide un’altra persona per le vie della sua città è un criminale? Come possiamo insegnare che non si devono mangiare (soltanto) quegli animali che amiamo?
CONCLUSIONI
La società umana ideale non si può basare sul precetto “rispetta chi ti piace”: questo è l’opposto del rispetto. Il vero rispetto, esattamente come il vero amore, si manifesta non quando “va tutto bene”, cioè quando si condivide tutto, bensì allorché si impone un sacrificio.
Se vogliamo un mondo in cui il rispetto non sia una facciata sterile che vive soltanto in vocaboli in continuo mutamento, dovremmo imparare ad affermarlo nella sostanza, quotidianamente.
Rispettare chi non ci piace esattamente come chi ci piace: è fin troppo facile accettare che soltanto chi amiamo o ci garantisce un utile possa esprimersi o godere di diritti. La vera sfida consiste nel rispettare chiunque.
Dovremmo smettere di avallare tutti i messaggi volti a negare le differenze, al pari di tutti quelli che si ripropongono di farcele piacere: è giusto che ciascuno abbia i propri gusti, opinioni, preferenze, ed anche che gli altri li rispettino, senza cercare di reprimerli. Urge, al contrario, ribadire che il rispetto per ciò che si ama o che è utile non è realmente tale, bensì che si tratta di semplice ipocrisia.
Per emancipare il nostro pensiero dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione sia i modelli che gli “anti-modelli”, evitando le ubique trappole del perbenismo e del “politicamente corretto”, che altro non è se non la naturale prosecuzione del modello di pensiero basato su discriminazione e pregiudizio, che si offre di contrastare.