DIPENDENZA, DISTACCO E LIBERTÀ

monti

Nel 2007 ero un praticante avvocato con pochi soldi in tasca e un cassetto pieno di sogni: se alcuni di questi erano del tipo “cambiare il mondo, fare la differenza, etc.”, altri erano molto più banalmente materiali, e per lo più riguardavano oggetti con 2 o 4 ruote e un motore. Insomma, da un lato c’era la parte interessata alla natura dell’esistenza, alla preoccupazione per i più deboli e i senza voce… dall’altro lato, però, imperversava l’ambizione del centauro, che dopo essere stata pura utopia per tutti gli anni dell’adolescenza, si era finalmente riuscita ad esprimere verso i 25 anni.

È difficile, oggi, rievocare la sensazione sperimentata in quella sera d’aprile in cui, casco in mano, mi accingevo a montare in sella a una moto che in certa parte avevo montato “pezzo a pezzo” nel corso di 6 mesi, ma che, semplicemente, non era più lì. Anzi, come avrei appurato nel giro di una settimana, probabilmente era già stata rismontata “pezzo a pezzo” per venderla come ricambi.

In quel turbinio di emozioni si affastellavano pensieri – alcuni degni delle migliori tragedie greche – di ogni tipo. Alcuni, prevalenti, erano: “perché non l’hai assicurata?”, “la polizia la ritroverà” (no, non è una battuta: ci speravo davvero!), “perché ti sta accadendo questo?”. La prima domanda andava superata poiché ormai “storica” e i rimpianti, si sa, non cambiano il presente, salvo peggiorare l’umore. Il secondo pensiero era figlio di un ottimismo di fondo che mi ha sempre accompagnato, dettato più che altro dalla persuasione che le cose possano sempre cambiare in meglio. L’ultima domanda era l’unica cosa veramente importante, e lì per lì dentro di me conoscevo perfettamente la risposta. Soltanto che non ero pronto ad ammetterlo.

La motocicletta è soltanto un esempio: ognuno di noi potrebbe raccontare storie simili su automobili, vestiti, animali, persone, oggetti di qualsiasi tipo e perfino idee.

Il bisogno, che si trasforma in dipendenza, può riguardare qualsiasi cosa, ma quasi sempre non siamo in grado di affrontarlo né gestirlo; anzi, tutto il contrario: pensiamo di stare meglio acquistando (o conquistando) l’oggetto del desiderio, così da superare quella fase da “bisogno acuto” (o dipendenza) che ci attanaglia, impedendoci di pensare ad altro.

In questo gioco perverso di dipendenze trasformiamo le cose in fini e le persone in strumenti: volgiamo vite intere all’accumulo di soldi o altri beni materiali, mentre ricerchiamo le persone non per ciò che possiamo dare loro, né per ciò che sono – in sé e per sé -, bensì per come ci fanno sentire.

“Amiamo” umani o non umani al pari di oggetti, dei quali ci piace circondarci, sentirci padroni e sapere di averli a disposizione, e largheggiamo nell’uso di termini che in realtà ci sono del tutto oscuri, in particolare “amare” e “voler bene”.

Non “amiamo” gli animali per il semplice fatto di “possedere” un cane: possiamo essere particolarmente legati a quello specifico individuo, ma spesso è assai difficile perfino sostenere che lo amiamo realmente. In realtà ciò che “amiamo” è come ci fa sentire, cioè che ci accolga scodinzolando la sera o che si emozioni vedendoci, o che cerchi la nostra approvazione attraverso piccoli gesti di affetto. Questo, che chiamiamo “amore”, è strumentalizzare: si ama “a prescindere” da ciò che si riceve, e non “a condizione” di ricevere. Sia ama ciò che qualcuno “è”, non ciò che qualcuno “dà”. Si ama per amare, non per conseguire. Non si ama “per stare meglio”, bensì tanto se si stia meglio, quanto stando peggio. L’amore o è puro e incondizionato, oppure non è. Può essere tante cose, tutte più o meno (consapevolmente o inconsapevolmente) interessate, ma non è amore.

Diceva Catullo “Ti ho voluto bene allora, non tanto come il popolano all’amante, bensì come il padre vuole bene ai propri figli e cognati”, e, ammonendo la sua amata fedifraga, aggiungeva: “Una tale offesa spinge ad amare di più, ma a voler meno bene”.

Siamo un po’ tutti Catullo, ma il Catullo ferito e deluso, allorchè avvertiamo il bisogno di persone (umane o non umane) non disinteressato, bensì condizionato al ritorno che attendiamo: non amiamo, ma possediamo, e siamo dipendenti.

Tutto ciò che è fuori di noi diviene strumento per colmare un bisogno, ma, ancora una volta, non stiamo preoccupandoci di quale sia il bisogno: ci interessa soltanto sospendere il sintomo.

Cerchiamo di curare le nostre insicurezze circondandoci di persone che non ci criticano mai, siamo incapaci di gestire la solitudine e desideriamo qualcuno che ci impedisca di stare soli, non sappiamo incarnare ciò che vorremmo essere, e cerchiamo qualcuno che ci sembri migliore di noi, per poterci proiettare le nostre aspettative e sentirci al suo livello, oppure ci accompagniamo a qualcuno che riteniamo molto inferiore per non sentirci mai in competizione.

Persone come motociclette e viceversa: nella confusione generata dalla dipendenza si può vivere, e perfino morire, incapaci di dare risposta alla più evidente delle domande: “Perché sta accadendo questo?”.

La differenza tra un bisogno e una libera scelta è nella libertà, che manca al primo e contraddistingue la seconda. Soltanto se non siamo dipendenti, nello scegliere qualcuno/qualcosa, siamo realmente liberi. Naturalmente la mancanza di libertà che deriva dalla dipendenza è una prigione di cui siamo al tempo stesso guardie e prigionieri: siamo noi a costruirla e a far sì di rimanerci, ma, appunto, siamo anche quelli che vi sono reclusi. Il problema è che spesso ci sfugge il primo ruolo e notiamo soltanto il secondo: ci diciamo vittime delle dipendenze, senza renderci conto che siamo pure i carnefici.

Maturare il distacco significa trovare il proprio equilibrio e mantenerlo “a prescindere” da tutto il resto, e non “a condizione che il resto vada bene”: a questo punto non esisterà nulla che “serva”, e si potrà sperimentare il piacere puro dell’altro da sé, senza il bisogno di possesso.

In questa prospettiva mutata qualunque cosa che non siamo noi assurge ad arricchimento, in sé e per sé e incondizionatamente: non esiste più l’animale “da compagnia”, ma “l’amico non umano”, né gli amici (umani) o i partner “stampelle”, né i falsi amici.

Il distacco non equivale a indifferenza, ma è la sublimazione della dedizione all’altro, che non viene più vissuto come strumentale, bensì in tutto il suo valore essenziale.

Il “bisogno” nasce da dentro. Non è un fatto assoluto, ma una condizione relativa, sulla quale possiamo intervenire in molti modi: sicuramente pensare di trovare fuori di sé la soluzione a una questione che affonda le proprie radici nella persona è fuorviante, e non potrebbe essere altrimenti.

Imparare ad affrontare se stessi è, in definitiva, l’unico modo per abbandonare le dipendenze, maturare il distacco e iniziare a vivere liberamente, maturando esperienze gratificanti e dettate dalla scelta, anziché dalla necessità.