Per un lungo periodo della sua storia l’umanità ha considerato la guerra un fatto onorevole, necessario, utile, da promuovere, perfino di cui vantarsi e addirittura indice di progresso. In Occidente la società romana ha rappresentato l’apoteosi dell’elogio bellico: affermare il proprio predominio su altri popoli ed esportare la forma di governo e la cultura rappresentavano il massimo vanto di qualsiasi governante dell’epoca. Quella cultura non ci ha abbandonati, ma, al contrario, ha permeato profondamente lo spirito occidentale, attorno al quale gli Stati odierni si sono plasmati.
Dopo la seconda guerra mondiale l’opinione pubblica in generale ha subito una profonda trasformazione e l’esaltazione dei conflitti che soltanto pochi anni prima era un fatto normale è divenuta condanna ferma e assoluta.
La società umana si è affacciata al 21º secolo inneggiando alla pace e deprecando l’uso della violenza in qualsiasi sua forma, sia fra privati che fra Stati. Dopo settant’anni dall’ultimo conflitto mondiale, spesi a promuovere la pace nel mondo, quale bilancio possiamo formulare?
La guerra è stata debellata, si, ma soltanto fra i paesi occidentali: guerre, fredde o calde, hanno continuato e continuano ad attraversare tutto il globo, vedendo anche il coinvolgimento dell’Occidente.
Insomma, il segreto della pace risiede nella somiglianza: non si combatte solo chi ci assomiglia e la pensa come noi.
Sono almeno settant’anni che educhiamo le nuove generazioni al valore della pace, ma è da altrettanto tempo che quei giovani, educati a perseguire la pace, una volta entrati nelle stanze dei bottoni creano o perpetuano conflitti. Come è possibile?
Viviamo in società profondamente dicotomiche, che instillano valori intrinsecamente conflittuali, favorendo l’insorgenza di comportamenti schizofrenici: non siamo realmente in pace con nessuno, poiché siamo costantemente educati a perseguire interessi individualistici, avallati da una struttura sociale che favorisce la separazione la contrapposizione, a cominciare dalla costituzione di gruppi familiari.
Siamo educati al rispetto, ma costretti alla vessazione dell’altro: le nostre leggi rappresentano lo strumento di tutela di chi le fa, la nostra affermazione sociale passa attraverso il superamento degli altri, l’economia consumista impone il soggiogamento dei gusti e delle volontà dei consumatori.
Nei confronti dell’ambiente e degli animali non umani siamo tutti invasori, oppressori violenti e spietati che antepongono piacere e comodità o pura velleità all’altrui diritto a esistere, con le nostre strade asfaltate, le foreste rase al suolo, milioni e milioni di autoveicoli, palazzi, dighe, impianti nucleari, eccetera.
L’ideale di pace ufficialmente in voga non è soltanto sterile, vacuo ed effimero, ma anche illusorio: come si può aspettarsi che questa pianta possa germogliare su un terreno carico di egoismo, odio, individualismo e vessazione?
I bambini, poi adolescenti e quindi adulti, che sono stati formalmente educati a coltivare la pace, diventano governanti forgiati da un sistema che li vuole schiavi del potere economico e apparenti sostenitori delle ragioni dei loro elettori, industriali interessati esclusivamente ad aumentare i dividendi dei loro azionisti, padri di famiglia preoccupati soltanto dell’avvenire dei propri figli, o semplici individui che da persone libere sono divenuti lavoratori/consumatori.
La pace non è assenza di guerra, bensì presenza di rispetto indiscriminato.
Il nostro modello di pensiero egoistico rende tutti noi soldati, impegnati a combattere conflitti quotidiani contro nemici che noi stessi abbiamo istituito: poco cambia che abbiano il volto di un collega di lavoro, di un bambino che muore di fame dall’altra parte del mondo, di una mamma non umana che viene privata del figlio e del latte che la natura vorrebbe a lui destinato, di un albero sradicato per costruire un palazzo da vendere a qualcuno, di un moscerino che si infrange sul parabrezza dell’automobile o perfino delle persone che affermiamo di amare ma che in realtà cerchiamo soltanto di possedere.
Come è possibile dunque uscire dal paradosso? Occorre pensare più in grande o più in piccolo? A mio avviso l’unico modo per superare questo e molti altri paradossi contemporanei consiste nel trasformare l’approccio mentale alla questione: comprendere il profondo significato del rispetto e adoperarlo indiscriminatamente rappresenta la sola speranza di acquisizione della consapevolezza.
Dovremmo adoperarci per trasformare la concezione di pace da quello che è oggi, cioè superficie e apparenza, in ciò che dovrebbe essere, cioè estrinsecazione di un valore di rispetto assoluto e incondizionato.