PREMESSE
Siamo soliti tacciare di radicalismo chi propone modelli significativamente differenti da quello cui siamo abituati: dietro a questa etichetta si cela (ma nemmeno tanto) la stigma sociale. Ciò che è radicale spaventa, preoccupa, determina ansia e destabilizza. Soprattutto quest’ultima è una caratteristica particolarmente deprecabile per chi governa, poiché una moltitudine destabilizzata è quanto di peggio si possa immaginare: puoi tenere a bada qualche elemento instabile, ma non una massa così fatta. Ma la valutazione in merito ad un pensiero radicale non può prescindere dall’analisi del sistema cui esso si contrappone. Se volessimo utilizzare il metodo percentuale per determinare quale cambiamento sia radicale e quale no, potremmo concludere che sicuramente è tale quello che mira a modificare oltre il 50% dei sistemi acquisiti, mentre è moderato quello compreso tra il 20% e il 50%. Si tratta di misure convenzionali, basate sul principio elementare che se una trasformazione ha per oggetto oltre la metà dei sistemi di riferimento, allora è per definizione radicale.
Per semplificare possiamo schematizzare come segue le differenti circostanze possibili, esaminandole mediante il seguente schema:
1) SE il sistema è per la maggior parte squilibrato (>50%), ALLORA il cambiamento radicale è indispensabile;
2) SE il sistema è mediamente squilibrato (20-50%), ALLORA il cambiamento radicale può essere utile ma non necessario, e potenzialmente controproducente;
3) SE il sistema è scarsamente squilibrato (0-20%), ALLORA il cambiamento radicale non è necessario né utile, ma tendenzialmente controproducente.
Il significato del termine fa riferimento al suo volgersi alle radici delle questioni, non limitandosi ai frutti o ai rami di una pianta: in ciò si evince peraltro che, sebbene in linea di massima si possa ipotizzare un determinismo quantitativo, l’approccio più corretto presupporrebbe una disamina qualitativa delle circostanze. In altri termini: non è (sol)tanto la quantità di elementi che si vogliono modificare all’interno di un sistema a fare la differenza tra la necessità o meno di un ripensamento radicale, quanto, piuttosto, la natura delle cause.
Un esempio: io realizzo un abito perfetto, che va completamente distrutto a causa di un incidente. In questo caso il problema era esteso al 100%, ma la causa accidentale esclude la necessità di un cambiamento radicale. Se, al contrario, io realizzassi un abito con imperizia tale da provocarne la distruzione totale al primo utilizzo, si verificherebbe senza dubbio una circostanza che presuppone un ripensamento radicale.
Insomma, nessun apriorismo è sensato: occorre vagliare le cause e l’estensione dei problemi cui si intende porre rimedio, o, in termini più oggettivi, degli squilibri da riequilibrare. Sì, perché i nostri parametri di valutazione usuali sono eminentemente (per non dire meramente) arbitrari: affermare che qualcosa rappresenti un problema può essere una verità per qualcuno e un errore per altri. Al contrario, verificare se gli elementi all’interno di un sistema siano in equilibrio è assai più oggettivo: se un abito sia bello o meno è opinabile, ma se le sue parti siano reciprocamente adeguate, tanto da consentirgli di svolgere efficacemente la sua funzione, è un fatto accertabile in modo assoluto.
UNA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI
La prima questione da affrontare, rapportandoci al sistema nel quale siamo immersi, è: quanto ne sappiamo di esso? Inoltre, cosa abbiamo realmente scelto di fare, e cosa, invece, ci siamo limitati a imitare, poiché “così si fa”? Ma, forse, ancora più a monte, dovremmo addirittura domandarci chi siamo, cioè quali siano la nostra origine, percorso, storia, cioè le nostre radici. Nello svolgere questa analisi ci accorgeremo ben presto di una circostanza banale ma spesso trascurata: noi non eravamo lì, mentre i fatti anteriori alla nostra nascita si verificavano. Semplice. Banale. Eppure è un fatto ricco di implicazioni che spesso trascuriamo completamente: se noi non siamo stati testimoni diretti della maggior parte dei fatti che “sappiamo”, allora dovremmo domandarci da dove essi provengano e se le fonti siano attendibili.
Il problema della storia è che viene scritta dai vincitori dei conflitti, e di conflitti la storia umana è talmente ricca, da non aver mai conosciuto periodi in cui non vi fosse almeno una parte del mondo in cui almeno due popolazioni si combattessero.
Il processo di formazione della storia è sotto gli occhi di tutti, nel presente, eppure nessuno o pochi ne constatano la parzialità: basti dire dei cosiddetti “attentati” americani del 2001, oppure della seconda guerra mondiale. Nel primo caso vi sono numerose e svariate prove che dimostrano perlomeno l’impossibilità che i fatti si siano svolti come ufficialmente professato, eppure la verità storica passata alle cronache, e dunque consegnata ai libri ufficiali e al ricordo sociale, è quella ufficiale. Idem dicasi per la figura di Hitler, universalmente considerata come il peggior dittatore della storia, sebbene il suo “collega” coevo Stalin abbia commesso atrocità ben più prolungate, più numerose e perfino più estese quanto alla varietà di vittime: fatti peraltro noti, ma comunque rimasti del tutto sullo sfondo dell’inconscio collettivo, che invece ha al centro il dittatore sconfitto.
Ma la questione è assai più ampia: tutti quelli che si sono succeduti alla guida di nazioni e popolazioni sono i “vincitori” che hanno plasmato la storia a loro piacimento, ma anche le abitudini, oltre alle idee e alle nozioni, ci derivano da selezioni risalenti, sulle quali non ci interroghiamo mai o perlomeno a sufficienza.
Ma, se è vero che chi prevale tramanda, allora è evidente che tutto ciò che sappiamo e facciamo per eredità dal passato non ci deriva dai più intelligenti, o illuminati, o altruisti, o generosi. Tutt’altro. Ad affermarsi in una storia fatta di guerre e violenze sono stati i più forti, i più crudeli, i più spietati, i più efferati, egoisti, egocentrici, ambiziosi: questa circostanza, di per sé, sarebbe più che sufficiente a suggerire un ripensamento critico radicale, cioè che coinvolga tutti gli stili di vita e le credenze consolidate, in tutti i campi e a tutti i livelli.
LA PAURA DEL CAMBIAMENTO
È a questo punto che fa capolino la paura del cambiamento, cioè quella sensazione di mancanza di terra sotto ai piedi che avvertiamo allorchè qualcuno, specie se noi stessi, mette in discussione le certezze e le convinzioni sulle quali abbiamo modellato la nostra quotidianità. È l’eterno dilemma rappresentato nel film Matrix: scegliere la consapevolezza rende liberi, ma complica le cose. Vivere nell’illusione rende prigionieri e burattini, ma è molto più semplice.
Non è necessariamente vero che la maggior parte delle persone sia all’oscuro del fatto che perlomeno alcune delle abitudini consolidate vadano riesaminate, ma è senza dubbio vero che la maggior parte degli esseri umani sia indotta a desistere dall’approfondire certi temi, anziché doversi confrontare con informazioni che indurrebbero a cambiare.
Insomma, spesso non è la nostra bandiera quella che sventoliamo, ma è soltanto quella di chi ci offre l’opportunità di rimanere ancorati al passato, alle abitudini, a ciò che conosciamo: talora questa necessità è talmente pressante da indurci a tralasciare completamente la logica e il buonsenso, continuando a comportarci come abbiamo sempre fatto, non in nome di convinzioni o ideali, bensì solo per abitudine.
Ma, si sa, ammettere le proprie debolezze è virtù da forti, e compete a pochi soltanto: molti di noi preferiscono mascherare la paura attraverso infiniti espedienti, laddove – in ultima analisi – l’unica cosa certamente vera è che i comportamenti sociali diffusi sono facili da condividere poiché non richiedono giustificazioni, ma godono di una sorta di legittimazione autoreferenziale ben espressa dall’assioma: “Lo fanno tutti”. E – si sa – se lo fanno tutti, allora va bene.
Ciò che temiamo è l’incerto e, per definizione, ciò che abbiamo alle spalle è certo, mentre ciò che abbiamo di fronte non lo è: ogni cambiamento implica un investimento. È come se “spendessimo” un po’ del coraggio di cui disponiamo, o della forza, per addivenire a una modifica di ciò che è consolidato in noi. Anche per questo motivo è assai più vantaggioso, in termini pratici, operare un solo cambiamento radicale, anziché n cambiamenti superficiali: tutti verranno vissuti con apprensione, ma almeno nel primo caso si verificherà soltanto una transizione, che rappresenta la parte di maggiore criticità di tutto il fenomeno.
Se si ha chiaro cosa c’è di sbagliato dietro di sé e dove/come si vuole arrivare, la paura del cambiamento può trasformarsi in emozione per la soluzione: la consapevolezza fa la differenza tra l’avvertire un senso di perdita per le abitudini cui si sta rinunciando e il nutrire soddisfazione per aver scelto un percorso che condurrà al miglioramento.
Se la paura è legata all’ignoto, il suo superamento dipenderà esclusivamente dall’apprendimento della verità: è per questo che non dovremmo mai stancarci di fare domande e di cercare risposte, considerandole un bene assoluto e mai un male.
SCUOLA E ISTRUZIONE
Fin dai primi anni di vita la principale esposizione sociale avviene in ambito familiare e scolastico, ed è sicuramente in quest’ultimo contesto che si verificano i primi confronti col mondo “vero”: qui si apprendono la maggior parte delle cose che costituiranno il nostro bagaglio di conoscenze, ma non soltanto nell’ambito del sapere e della cultura.
Dai coetanei apprendiamo come comportarci, dagli insegnanti come pensare, a quali modelli ambire o meno, dai libri apprendiamo le informazioni: nel primo caso (coetanei) il livello di interazione è massimo, mentre nel secondo caso (adulti) è medio e nel terzo (libri) del tutto assente.
La nostra predisposizione a mettere in discussione ciò che apprendiamo è inversamente proporzionale al livello di interazione, sicchè se, già da bambini, siamo in grado di analizzare ciò che i nostri compagni di scuola affermano, ed eventualmente formarci un’opinione in proposito, non ci sfiora neppure l’ipotesi di fare altrettanto per quanto concerne i libri.
I testi, perlomeno quelli che ci sottopongono durante il nostro percorso di studi, enunciano verità assolute: questo leit motiv ci accompagnerà fino al conseguimento della laurea o di qualsiasi altro sia il nostro ultimo titolo di studio.
Il primo problema con questa circostanza è che i libri contengono solo ciò che contengono: affermazione di per sé tautologica, ma tutt’altro che scontata. Specialmente gli studenti di facoltà scientifiche sono usi prendere in considerazione tutto e solo ciò che hanno studiato sui loro testi, ma questo è un limite incredibile, se si pensa che la scienza è in continuo divenire su tutti i fronti ed è attualmente eccezionalmente lacunosa. Sebbene differenti discipline scientifiche abbiano raggiunto livelli diversi di (in)completezza, ed alcune evolvano con velocità nettamente superiore rispetto ad altre, è tuttavia evidente che in tutti i casi ciò che si ignora è più di ciò che si conosce.
L’attitudine a considerare la parola scritta come una verità assoluta, congiunta con la fiducia innata negli “adulti”, o nei nomi illustri che suscitano fiducia, fa sì che seppur non dovessimo ritenere esatto al 100% tutto ciò che abbiamo studiato, sicuramente non ci poniamo il dubbio che possa essere incompleto. Anzi, a ben vedere durante gli studia si è normalmente così presi a limitare la lunghezza e la complessità delle materie, da non voler fare altro che diminuire piuttosto che aumentare le questioni sottese a ciascuna materia.
Ciascun autore è anche interprete, dunque un po’ di ciò che troviamo scritto è sempre perlomeno un’opinione; ciò senza contare tutti gli argomenti “aperti”, ove si fronteggiano pareri discordanti, dei quali però non siamo spesso neppure consapevoli, limitandoci alla versione del nostro docente o autore (o ambedue le cose assieme).
L’affermazione di alcuni fisici che “sicuramente esistono altre forme di vita intelligenti nell’universo, ma non possono entrare in contatto con noi, poiché ci vorrebbe un tempo eccessivo in quanto non è possibile superare la velocità della luce” è l’esempio più palese di questo approccio limitato e limitante: ignoriamo l’origine e la composizione dell’universo, nonché la maggior parte dei fenomeni che vi si verificano, eppure ci sentiamo in grado di escludere ciò che non conosciamo (la maggior parte delle cose), in base a ciò che conosciamo (una minima parte).
A parte certi limiti, che potremmo considerare metodologici, la nostra istruzione risente di un problema intrinseco: non è volta a creare menti pensanti, bensì contenitori di informazioni. Chi esce dalle facoltà di psicologia non è una persona capace di comprendere il prossimo, ma soltanto di inserirlo in categorie ipotizzate da altri. Chi esce dalle facoltà di filosofia non è in grado di formulare un suo pensiero innovativo, ma soltanto di riferire, o al massimo criticare, quello altrui. Chi esce dalle facoltà di medicina non è un terapeuta, ma un prescrittore di farmaci. E questo è ciò che il sistema chiede/ammette/favorisce: esprimere un pensiero proprio alla facoltà di filosofia significa essere tacciati di presunzione. Un medico che non si limita a prescrivere farmaci previsti dalle linee guida ufficiali – magari dannosi, ma ufficialmente previsti – è perseguito.
Insomma, in una sola frase: le nostre scuole non insegnano “a pensare”, bensì “cosa pensare”. L’abitudine, la sedentarietà, la presunzione e la saccenza in noi innate, fanno tutto il resto: chi si è visto zittire quando ha espresso un pensiero originale, farà altrettanto con chi verrà dopo di lui, e nasconderà dietro ai titoli le incertezze e le lacune, ricavando autorità dalla posizione e dalla qualifica anziché dalle sue qualità effettive.
POLITICA
Fra tutte le componenti della società contemporanea, la politica rappresenta probabilmente l’apice della disfunzionalità: ciò che avrebbe dovuto essere garanzia suprema delle istanze dei membri delle collettività ha finito per essere, storicamente, il luogo preposto al loro sistematico sfruttamento. Sfruttamento che, beninteso, le masse stesse hanno consentito e avallato: ciò non tanto perché, come spesso si sente dire, i cittadini non fanno le rivoluzioni, bensì perché sono loro stessi a scegliere i propri aguzzini, eleggendoli mentre questi gli ammanniscono facili e illusorie lusinghe.
Non sono i politici sbagliati, ma la società che li produce. Pensare di sistemare le cose “dall’alto” è un’illusione. Credere che sia sufficiente cambiare leggi, regole elettorali o sistemi di controllo, è semplicemente ingenuo.
La politica funzionerà quando la società funzionerà. Ma la società funzionerà quando un numero sufficiente dei suoi membri assumerà consapevolezza del proprio ruolo al suo interno, cessando di aspettare che altri risolvano i problemi che questi crea, e diventando invece egli stesso un risolutore.
Non c’è un supereroe, un presidente, un messia o un dio che possa rimediare agli sbagli che noi facciamo: soltanto una moltitudine di volenterosi produrrà il cambiamento che da sempre si invoca.
Passare da una prospettiva fideistica e ingenua ad una responsabile e propositiva è un requisito essenziale e inevitabile, se si vuole divenire partecipi di un sistema virtuoso.
D’altronde la politica dovrebbe rappresentare un sacrificio, non un atto egoistico. Allo stesso modo, chi si accinge a guidare le comunità dovrebbe farlo possedendo doti di eccellenza: concetti estranei alla politica contemporanea, che non contempla alcun tipo di addestramento o istruzione particolare, e che vede normalmente al vertice di qualsiasi settore individui privi perfino di competenze elementari. Parlamenti che emanano leggi su argomenti sconosciuti alla maggior parte di loro, ministri che si pongono al vertice di strutture in cui perfino gli ultimi possiedono maggiore preparazione specifica, etc.
ECONOMIA
Ormai da lungo tempo l’economia, o, per meglio dire, il conseguimento del profitto è divenuto il principale (ove non già l’unico) fine degli individui e delle nazioni. Non esistono problemi derivanti dalla crisi economica, ma è semplicemente l’economia industriale in sé il problema. Basti considerare che espressioni quali “devo farlo per lavoro”, oppure “pur di lavorare” sono oramai all’ordine del giorno e vengono adoperate per giustificare pressochè qualsiasi cosa: dallo stare lontani dai propri congiunti, al provocare danni o inquinamento, etc.
Giudichiamo gli altri paesi del mondo in base al reddito o al PIL, e ci confrontiamo con i nostri simili in base ai beni materiali posseduti o agli stipendi percepiti, instillando nei nuovi nati attraverso ogni sfaccettatura della nostra cultura l’ambizione al guadagno, e al consumo.
I rimedi superficiali a questo status quo sono ampiamente inadeguati, soprattutto in quanto il problema non è affatto superficiale, bensì assai profondo: riciclare beni “usa e getta”, o “desiderare meno oggetti” non sono altro che palliativi.
La logica e la storia insegnano che l’essere umano difficilmente sopporta le limitazioni, almeno se le percepisce come tali: e tali, di fatto, sono gli inviti a moderare i consumi non accompagnati da una proposta di ripensamento radicale delle corrette modalità di vita e perfino in relazione al suo stesso senso.
Il colmo dell’alienazione si manifesta nella ferma volontà degli schiavi di mantenere la propria condizione servile: ogni persona che rivendica il diritto a lavorare e a spendere soldi per l’acquisto di beni necessari o voluttuari è semplicemente questo.
Viviamo all’interno di sistemi talmente distanti dal reale senso delle cose, da aver non soltanto dimenticato che qualsiasi individuo, per considerarsi libero, dovrebbe perlomeno avere accesso alle risorse essenziali, cioè fonti di cibo, acqua e riparo. Un qualsiasi individuo occidentale è costretto a lavorare per guadagnare e pagare ciò che gli occorre per sopravvivere, e ciò lo considera normale; inoltre si adopera con zelo per lavorare/guadagnare sempre di più per potersi permettere una serie indefinita di oggetti non necessari e spesso dannosi, e ciò lo considera desiderabile.
Il problema, dunque, non è tanto come “aggiustare” la situazione presente, bensì come applicare un modello semplicemente differente.
UN’UTOPIA… REALIZZABILE!
Insomma, un sistema come quello presente è sicuramente non equilibrato, o, come va di moda dire in questo periodo, “non sostenibile”: metà del mondo è affamata o continua a combattere guerre per le ragioni più disparate. La metà del mondo che non è in guerra sfrutta quell’altra, e fonda le proprie alleanze politiche sul ritorno economico, offrendo ai propri cittadini una promessa di libertà che, invece, cela soltanto la dittatura dei consumi, resa possibile dalla elevatissima influenzabilità delle persone.
A questo punto abbiamo tre alternative:
1) persistere nel nostro status quo,
2) attuare cambiamenti progressivi,
3) attuare cambiamenti radicali.
La maggior parte delle persone sta praticando la prima strada: sebbene molti siano critici nei confronti del sistema, continuano ad avallarne i valori, a supportarlo, dunque a renderlo possibile, e – al più – lamentano l’inattività di non meglio precisati soggetti terzi (i governanti, gli altri, i ricchi, etc.). Si tratta di una strada non percorribile, non per motivi esogeni, ma meramente endogeni: è un circolo vizioso che logora le sue stesse fondamenta e che, pertanto, è destinato a collassare. Le risorse, così come la capacità di sopportazione delle vittime, sono limitate, e pertanto un sistema che ne abusi non è semplicemente possibile (oltrechè indesiderabile).
La seconda strada è professata da molti, ma credo di aver spiegato a sufficienza per quale motivo un cambiamento progressivo talora non sia possibile. Ciò non soltanto per l’urgenza di talune circostanze, che probabilmente non ammette dilazioni (basti pensare alla situazione ambientale), ma altresì per gli effetti non auspicabili del limitarsi ad adattare la cultura e l’esistenza a percorsi radicalmente sbagliati: il margine di miglioramento c’è in ogni situazione, ma evidentemente in tali circostanze sarebbe assai limitato.
C’è, poi, da considerare l’aspetto pratico: pur a fronte di notevoli professioni in tal senso, la realtà quotidiana dimostra che i miglioramenti graduali, se reali, sono comunque marginali o perlomeno insufficienti, e in molti casi perfino sopravanzati dagli aggravamenti, o strumentalizzati all’origine. Basti pensare alle note campagne per il riciclaggio o per l’acquisto di autoveicoli “Euro n”, ibridi o elettrici: dietro all’illusione dei consumatori di agire “bene” o in modo “ecologico” (poiché questo è quanto promesso dalle pubblicità) si cela l’aumento o la persistenza dei consumi, magari con impatti perfino superiori (si pensi a quelli per la produzione e lo smaltimento di batterie elettriche per autoveicoli).
Il terzo approccio, sebbene considerato allarmante dai più, è in verità l’unico rassicurante: solo avendo il coraggio e la volontà di mettere in discussione tutto è possibile emanciparsi, divenire attori anziché spettatori della propria vita e aumentare la coerenza delle proprie scelte. Inoltre soltanto approcciarsi alla realtà coeva senza presunzioni né paraocchi consente di escogitare soluzioni reali, a prescindere dal fatto che siano immediate o meno: la rapidità del cambiamento sarà comunque dettata dalla capacità di ciascuno. Ciò, naturalmente, salvo che i sempre più vistosi rivolgimenti ecologici decidano per noi, obbligandoci semplicemente a ciò che spontaneamente non siamo in grado di attuare.
La prima lezione dell’approccio radicale è di smettere di puntare il dito verso gli altri e iniziare a lavorare su se stessi, cambiando le proprie abitudini, sì, ma anche e soprattutto i propri meccanismi mentali: il modo di pensare.
Che un singolo trasformi un intero pianeta è un’utopia. Che un singolo trasformi un singolo è un fatto estremamente banale. E, allora, per realizzare questa utopia non occorre altro se non che ciascuno di noi radicalizzi se stesso: il mondo seguirà.