Ciascuno è figlio del proprio tempo, e così se Zenone di Elea poteva attingere alla natura e alla mitologia per ispirarsi al paradosso di Achille e della tartaruga, a me tocca ispirarmi a un mondo fatto di macchine e asfalto, e pertanto ecco a voi Il paradosso del dosso.
Lo ammetto: non ho saputo resistere alla tentazione di sfruttare il gioco di parole che in italiano può nascere, sebbene per essere più rigoroso avrei dovuto discutere di paradosso del rallentatore stradale.
Ebbene sì: siamo una società profondamente confusa, che spesso si autodefinisce affetta da una crisi profonda dei valori, ma che tuttavia non riesce ancora a realizzare appieno la causa di tutto ciò. Non sono i valori a mancarci, bensì il senso profondo delle cose, nonché il metodo per ricercarlo.
Sempre più spesso accade che si provi a risolvere un problema causandone uno ancora più grosso. Ritengo che questo sia un chiaro sintomo di confusione: fermi come siamo, alla superficie delle cose, e alla loro apparenza, non siamo capaci di cogliere le profonde e autentiche implicazioni delle nostre scelte. Ed è così che arriviamo al paradosso in questione: le nostre città, e non solo, vanno costantemente omologandosi, e una delle omologazioni più evidenti riguarda la diffusione dell’utilizzo dei cosiddetti dossi per il rallentamento degli autoveicoli. Si tratta di oggetti dotati di forme e materiali tra i più disparati, ma con l’identico effetto di costringere il conducente a rallentare la velocità di marcia.
Oltre al rallentamento spesso questi oggetti provocano anche le imprecazioni dei guidatori, che magari sopraggiungono a velocità troppo elevata e accusano il fastidioso contraccolpo; tutti questi disagi hanno lo scopo dichiarato di migliorare la sicurezza stradale e diminuire pertanto il numero di feriti o morti causato dall’alta velocità all’interno delle città.
Messa in questi termini chiaramente la questione è tra l’interesse alla salute o addirittura alla vita da una parte, e quello alla comodità o velocità del trasporto, dall’altra parte. È ben evidente che si tratti di interessi non contrapponibili, in quanto i primi sono da intendere evidentemente come sovraordinati ai secondi.
Proprio a questo punto nasce il paradosso: secondo studi che sono stati effettuati in varie parti del mondo, in particolare Gran Bretagna e Stati Uniti, nei tratti di strada sui quali insistono dossi o altri dispositivi per il rallentamento obbligato il consumo di carburante può arrivare perfino a essere doppio rispetto a strade che ne sono prive.
Non che occorra essere degli scienziati per intuire questo semplice fenomeno fisico: l’accelerazione di una massa richiede più energia rispetto al mantenimento di un moto uniforme; peraltro oserei aggiungere che il calcolo di cui sopra è semplicistico, poiché non tiene in considerazione la maggiore usura dei freni, che ha altre due ricadute deleterie: primo il rilascio nell’ambiente di polveri che sono notoriamente cancerogene risultanti dallo sfregamento delle pastiglie contro i dischi, e, secondo, va da sé che quanto più vengono utilizzate le pastiglie, tanto più spesso devono essere cambiate, con un evidente aumento della produzione e dei relativi consumi. Quegli studi non tengono neppure in considerazione l’enorme impatto determinato dalla realizzazione di quelle opere, nonché dalla loro continua manutenzione: spesso si tratta peraltro di oggetti complessi realizzati anche attraverso l’uso di metalli e parti plastiche, nonché vistosamente verniciati per facilitarne l’identificazione a distanza.
Sappiamo per certo, ma anche per questo non occorre essere scienziati, che parecchie migliaia di morti ogni anno sono causate dall’inquinamento. Anche molte malattie sono causate o aggravate dall’inquinamento. Ufficialmente i governi sono impegnati nella riduzione dell’inquinamento e nella tutela della salute della vita (umane).
Ed eccoci qui al nostro famigerato paradosso del dosso: cerchiamo di prevenire pochi potenziali danni e morti provocandone con certezza ancora più di quanti ipoteticamente ne possiamo prevenire.
Anche in questo caso il problema chiaramente non è limitato ai famigerati dossi, ma consiste piuttosto nell’incapacità di valutare a 360° le nostre scelte, tanto da finire per sentirci addirittura nel giusto e meritevoli, mentre invece stiamo producendo l’opposto di ciò che desideravamo.
Non è un caso che proprio in tema di ecologia si verifichino moltissimi dei nostri equivoci: del resto la nostra reale preoccupazione in proposito è del tutto egoistica, poiché ci sta a cuore il nostro stesso futuro. Allo stesso modo siamo capaci di pontificare su quali requisiti qualcun altro debba possedere per poter adottare un minore, poiché ci diciamo preoccupati del futuro sviluppo di quei piccoli sconosciuti, mentre quotidianamente contribuiamo ad azzerare le stesse speranze di sopravvivenza, tanto loro, quanto di quelli che conosciamo, impegnandoci a esaurire le risorse dell’ambiente che ci ospita.