L’uso di animali nella sperimentazione ha come padre Cartesio, che considerava tutti i non umani come semplici macchine, i cui meccanismi producevano movimento, suoni e tutte le caratteristiche che li rendono animati.
Un quasi contemporaneo di Cartesio, Nicholas Fontaine, così descriveva la pratica della sperimentazione cartesiana: “Dicevano che gli animali erano orologi; che le grida che emettevano quando erano percossi erano soltanto il rumore di una piccola molla che era stata toccata, e che il corpo nel complesso era privo di sensibilità. Inchiodavano poveri animali a delle tavole per le quattro zampe, per vivisezionarli e osservare”[1].
Dopo che, per alcuni secoli, i “dotti” e gli “uomini di scienza” hanno schernito quelli che ritenevano gli animali non umani esseri senzienti, la scienza ufficiale ha infine ammesso che è proprio così, cioè che anche loro sono dotati di recettori del dolore e che, attraverso le funzioni encefaliche, sono in grado di percepire il dolore in modo fisiologicamente analogo agli esseri umani.
Nel frattempo, però, la “scienza” aveva radicato un sistema e, come è noto, ogni abitudine presuppone un investimento per essere modificata: gli “scienziati”, cioè, avrebbero potuto decidere di abbandonare una pratica che si era accertato provocare sofferenza su esseri in grado di provarla, oppure tirare dritto offrendo un appiglio morale.
Quale percorso sia stato scelto è un fatto tristemente noto. L’appiglio morale che è stato fornito consiste nella considerazione che si tratti di un male necessario.
Il concetto di “necessità”, però, non è di natura scientifica, bensì filosofica e, nell’ambito di comunità organizzate, giuridica.
L’asserita necessità deriverebbe dalle seguenti premesse:
1) gli esseri umani si ammalano;
2) gli ammalati devono essere curati a qualsiasi costo;
3) non è moralmente lecito usare altri esseri umani per sperimentare cure;
4) i modelli fisiologici animali sono analoghi a quelli umani.
Pensatori ed esponenti dei movimenti animalisti contestano la liceità della sperimentazione sugli animali, affermando che:
1) anche gli animali provano dolore;
2) gli esseri umani non hanno il diritto di infliggere sofferenza agli animali;
3) la fisiologia di umani e non umani presenta differenza tali da rendere inutili e perfino dannosi i tentativi di comparazione.
FALSE PREMESSE
Premessa n. 1: gli esseri umani si ammalano. Vero… oppure no? La maggior parte delle malattie oggi diffuse nel mondo occidentale, o, perlomeno, quelle che provocano i più elevati tassi di mortalità, hanno cause note: l’inquinamento ambientale e atmosferico, l’uso alimentare di farine raffinate, di zucchero (in particolare di quello bianco), di prodotti animali, la carenza di attività fisica, l’uso di bevande gassate, di cibi cotti, il fumo, l’uso di alcolici, droghe, etc.
La maggior parte delle persone ignora sia la pericolosità di numerosi alimenti che, viceversa, gli effetti benefici di molti altri. Sarebbe sufficiente radicare una reale cultura alimentare e, per contro, smettere di sovvenzionare, finanziare e promuovere il consumo di alimenti nocivi, per determinare non la cura, ma, meglio ancora, la prevenzione di malattie gravissime come tumori e patologie cardiovascolari.
Insomma, se è vero che non tutte le patologie possono essere prevenute, è pur vero che quelle statisticamente più diffuse in occidente, avendo cause note (o almeno parzialmente note) possono esserlo e, rispetto ai tentativi di curarle in seguito all’insorgenza, la prevenzione presenta innumerevoli vantaggi: i) il numero di beneficiari sarebbe molto superiore, ii) l’effettività del rimedio sarebbe molto superiore, iii) non ci sarebbero effetti collaterali, iv) non ci sarebbero danni economici (né per gli individui, né per i sistemi sanitari).
Premessa n. 2: dalla erroneità della prima premessa, considerato che non è inevitabile che gli esseri umani contraggano numerose patologie, deriva anche l’erroneità della seconda, poiché si è visto che non c’è cura migliore della prevenzione. Inoltre “cura” presuppone un rimedio che in realtà nella maggior parte dei casi non è nemmeno ipotizzato dalla medicina contemporanea, che si limita a infliggere un male minore (o presunto tale) per limitarne uno maggiore.
Immaginiamo che 100 persone si ammalino di malattie causate da un’alimentazione scorretta: di queste 100 è probabile che 20 o 30 non scoprano neppure la patologia fino alla morte da essa causata. Delle rimanenti 60-70, ipotizzando che tutte – nessuna esclusa – abbia i mezzi e la volontà di ricorrere alla medicina: alcune di loro (dal 20 all’80%, a seconda della malattia) sopravviveranno nell’immediato, ma nel caso di gravi mali si parlerà loro di “prospettiva di sopravvivenza media”, cioè di anni (o mesi) previsti prima che il male insorga nuovamente o che esso conduca alla morte.
Nella più rosea delle aspettative, dei 100 individui originari, la cura a posteriori avrà garantito un prolungamento dell’esistenza di media o breve durata a circa 30 persone, a fronte di un peggioramento complessivo della qualità della vita, di ingenti investimenti sanitari e, ovviamente, della ricerca che ha provocato lo sfruttamento e l’uccisione di milioni di animali non umani.
Nessuna di tali pratiche “terapeutiche” potrà impedire che in futuro altri contraggano le medesime patologie, ma potrà soltanto intervenire, a posteriori, per tentare di porvi rimedio, in un circolo vizioso senza fine.
La “cura”, insomma, rappresenta un trattamento sintomatico che non incide minimamente sulle cause e che, pertanto, oltre ad essere per definizione meno efficiente, richiede investimenti continui e risultati inferiori.
La conclusione più ovvia è che, se curare a posteriori equivale a fare il 30%, prevenire equivale a fare 100%, cioè il massimo e che, pertanto, chi è realmente interessato al benessere e alla salute altrui potrebbe tutelarli molto meglio dedicandosi all’informazione anziché ai trattamenti sintomatici.
Non occorre neppure fare ricorso alla logica per sapere, come suggeriscono i sentimenti a ciascuno di noi, che quando teniamo a qualcuno cerchiamo in tutti i modi di non farlo stare male e, soltanto in seguito, se non ci riusciamo, facciamo di tutto per curarlo dal male che non siamo stati in grado di evitargli.
Quanto al fatto di curare “a qualunque costo”, la questione diviene assai complessa: è evidente che nessuno, di fatto, agisce in base a questo principio, altrimenti dovrebbe essere disposto a sacrificare per la cura non soltanto la vita di altri animali, ma anche la propria, ad esempio sperimentando in prima persona farmaci e terapie. Così non è.
Premessa n. 3: anche in questo caso dalla contraddittorietà di una premessa deriva l’erroneità di quella seguente.
Posto che nessun ricercatore intende realmente trovare cure efficaci “a qualunque costo”, occorre dunque comprendere quale sia il sacrificio legittimo e giustificabile. Non esiste un criterio unico, assoluto e certo cui fare riferimento, ma esistono moltissime opinioni su quali soggetti sia possibile sacrificare a quali altri.
La rassegna della storia umana è ricchissima di esempi di categorie o gruppi che sono stati (o sono) considerati sacrificabili in quanto latori di interessi subordinati a quelli altrui, eccone una rapida carrellata:
– i deboli rispetto ai forti;
– i malati rispetto ai sani;
– i non nobili rispetto ai nobili;
– gli schiavi rispetto ai padroni;
– i sudditi rispetto ai governanti;
– i subordinati rispetto ai comandanti;
– i neri rispetto ai bianchi;
– le donne rispetto agli uomini.
Soltanto rispetto alla sperimentazione per fini “scientifici” le innumerevoli posizioni vanno da un estremo all’altro e comprendono, tra l’altro, le seguenti:
– è legittimo usare esseri umani (benchè considerati “non umani”) quali ebrei, zingari, etc.;
– è legittimo usare qualsiasi animale eccetto gli umani;
– è legittimo usare soltanto animali di specie inferiori (ratti, rane, etc.);
– non è legittimo usare alcun animale senziente;
– non è legittimo usare alcun animale.
In varie epoche, in vari luoghi, si sono affermate o sono coesistite tutte o alcune delle suddette correnti di pensiero, il che dimostra che, non essendoci accordo in proposito, è soltanto la prospettiva dell’osservatore a determinare quale sia lecito e quale no: ideologie, culture e tempi differenti determinano posizioni differenti.
L’unica posizione che non rimette all’arbitrio dell’osservatore la sorte di tutto ciò che è altro da questi, è l’ultima, cioè il rifiuto di qualsiasi strumentalizzazione altrui, senza pretendere di determinare limiti o confini per le tutele o per i sacrifici ritenuti leciti.
Ragionando al contrario, quale argomentazione può legittimare l’uso di animali non umani, e, viceversa, condannare quella di umani, per la sperimentazione? Se per ipotesi una specie aliena tecnologicamente più avanzata della nostra invadesse la Terra, quale scusa potremmo adoperare per impedirgli di considerarci sacrificabili per i loro scopi?
Premessa n. 4: sotto il profilo scientifico non è questo il luogo adatto per confrontare analiticamente le posizioni contrapposte, ma sotto il profilo logico si può comunque proporre un’analogia. Immaginiamo di possedere una lussuosa Mercedes del 2013, dotata di navigatore satellitare, numerosi airbag, abs, magari pannelli solari, tecnologia ibrida, telecamere, sensori di parcheggio, poltrone massaggianti, radar, cruise control, iniezione elettronica, etc. A questo punto ipotizziamo di dover riparare la nostra Mercedes e, per non danneggiarla ulteriormente, decidiamo di capire come fare con un altro modello, per esempio una Chevrolet del 1980. Iniziamo a questo punto a smontare la Chevrolet e scopriamo che anch’essa ha un motore, delle ruote, dei sedili, una scocca, dei fari, dei cavi elettrici e dei vetri. Bene, pensiamo, è fatta! Apprendiamo perfettamente come riparare il motore della Chevy, smontando e ripulendone i carburatori, quindi torniamo alla nostra Mercedes pronti per ripararla, ma scopriamo che non esistono carburatori, bensì iniettori. A questo punto ci tocca ricominciare daccapo, e scegliamo una Volkswagen del 1995: questa volta il sistema di alimentazione del motore è effettivamente a iniezione, quindi siamo sicuri del successo. Smontiamo il motore della Mercedes, interveniamo effettuando gli interventi che avevano ripristinato gli iniettori della Volkswagen, ma qualcosa non funziona: quelli della nostra Mercedes erano a iniezione diretta e il rimedio non ha funzionato. A questo punto ci troviamo con due automobili, prima funzionanti, guaste e con la nostra irrimediabilmente compromessa, o, perlomeno, in condizioni peggiori di prima.
La Chevrolet e la Volkswagen, affermeremo noi quali proprietari della Mercedes, avevano scarsissimo valore, vuoi per l’età, vuoi per il prestigio del marchio: il sacrificio di quei due esemplari rappresentava dunque un male minimo in nome di un interesse più alto.
Il proprietario della Mercedes non sarà soddisfatto e sarà probabilmente triste per non aver riparato il proprio veicolo, che era già danneggiato, mentre i proprietari della Chevrolet e della Volkswagen saranno disperati, poiché per loro quelle automobili erano tutto ciò che avevano, funzionavano perfettamente e non avevano in nessun modo concorso a cagionare il danneggiamento della Mercedes.
Insomma, potremmo smontare tutti i modelli di auto del mondo, ma finchè non saremo alle prese esattamente con quello che ci interessa, avremo soltanto una conoscenza indiretta, casuale e, spesso, la falsa convinzione di sapere ciò che in realtà ignoriamo.
IL PRINCIPIO DI NECESSITA’: QUESTO SCONOSCIUTO
Dopo aver chiarito le innumerevoli contraddizioni della sperimentazione sugli animali, torniamo a domandarci che ne è del principio di necessità, cui tanto ci si appella.
Se l’obiettivo è la salvaguardia della salute umana, posto che l’efficienza della prevenzione non è paragonabile con i tentativi di cura a posteriori, allora la reale necessità sarebbe quella di prevenire, non di curare.
Necessità per chi? Nessuno viene cooptato per fare il medico, ma lo sceglie liberamente, dunque nessun ricercatore può definirsi individualmente obbligato a curare, così come un avvocato non può definirsi obbligato a difendere. Se, però, un avvocato decidesse di far condannare un innocente per far assolvere il proprio assistito, potrebbe mai rivendicare il principio di necessità?
Potrebbe forse giustificare la propria azione in questo modo?
Insomma, proprio come il dovere di difesa si arresta allorchè travalichi la “giusta difesa” e sfoci invece in una lesione di altri, allo stesso modo qualsiasi “dovere terapeutico” non può che arrestarsi dinanzi all’interferenza con altri che non sono il paziente e le cure a questi somministrabili senza recare danno ad altri.
Qualsiasi tentativo di legittimare la sperimentazione attraverso il principio di necessità è frustrato in partenza, poiché anche elementi assoluti dell’esistenza quali la vita e la malattia sono ineluttabili e soltanto la scelta di attenuare in senso assoluto il male può essere moralmente condivisibile e oggettiva.
Se per salvare noi stessi avessimo bisogno di un trapianto di organi potremmo forse affermare che ciò sia necessario? Sarebbe senz’altro necessario per la nostra sopravvivenza, che di per sé non è “necessaria”, anche perché di fatto limitata, ma ciò ci legittimerebbe a uccidere qualcuno per il prelievo dell’organo necessario? C’è chi lo pensa, e infatti esistono anche traffici illeciti di organi, ma per quale motivo sarebbe riprovabile quest’ultimo, se non lo fosse anche l’uso di animali?
Il cosiddetto “principio di necessità” invocato dai fautori della sperimentazione animale cela in verità un semplice giudizio di valore: se si trattasse di reale necessità assoluta, qualsiasi persona o cosa sarebbe sacrificabile.
Affermare che non ci siano alternative rappresenta soltanto la giustificazione morale di una scelta precisa e arbitraria, basata sul giudizio di valore che un umano vale più di un non umano.
Anzi, considerato il fatto che la maggior parte delle sperimentazioni avviene per la finalità di pubblicare i risultati delle ricerche e non per trovare reali cure, sarebbe più corretto osservare che non soltanto si verifica una comparazione tra il valore di umani e non umani, ma si ritiene semplicemente privi di qualsiasi valore questi ultimi.
I LIMITI DELLE FILOSOFIE ANIMALISTE E LA CONCLUSIONE EUSEBISTA
Le filosofie animaliste, a partire da Bentham, si sono opposte all’utilizzo di animali come strumenti per un fine, sulla scorta della considerazione fondamentale che anche loro provano dolore e che, pertanto, non è corretto infliggerne.
Lo stesso Singer ribadisce che il benessere degli esseri senzienti deve essere preso in considerazione dalle teorie utilitariste nella valutazione del benessere complessivo.
Secondo gli animalisti la sperimentazione è immorale, poiché i non umani sono senzienti, dunque è irrilevante stabilire se il loro impiego determini effetti utili per gli umani: è semplicemente sbagliato disporne, a prescindere dai risultati.
In verità già l’utilitarismo di Singer lascia scoperto il fianco ad alcune critiche in proposito: il male di alcuni sarebbe sempre giustificabile attraverso il conseguimento di un beneficio superiore.
L’Eusebismo tralascia qualsiasi questione che implichi apprezzamento soggettivo: l’atto dispositivo in sé, a prescindere dalle conseguenze, è da rifiutare.
Non soltanto l’inflizione di sofferenza rappresenta un arbitrio, ma la privazione della libertà, la detenzione in sé, l’uccisione: tali comportamenti sono tutti ugualmente da respingere in quanto esulanti dalla disposizione di se stessi, che è l’unica ammissibile.
Anche distinguere tra chi ha natura senziente e chi non ne ha rappresenta un arbitrio e, quindi, una discriminazione, specie se si considera che l’attribuzione di natura senziente a non umani è radicalmente cambiata nel corso della storia.
Si rende necessario invertire la prospettiva adoperata non soltanto da chi effettua vivisezione, ma condivisa anche da chi vi si è finora opposto su basi filosofiche: non è corretto domandarsi per quale motivo ci si dovrebbe astenere dal disporre degli animali da laboratorio, ma ci si dovrebbe domandare quale sia il diritto alla base dei nostri atti dispositivi.
Fino ad oggi tutte le risposte che si possono dare sono di natura discriminatoria, prevaricatoria e opportunistica e ricadono nella considerazione: “salvo il più simile a scapito del meno simile” e, nel fare questo, “agisco perché ho il potere di farlo”.
Il secondo assioma rappresenta la cosiddetta “legge del più forte”, cioè quella che noi abbiamo abolito e riproviamo, ma che – insospettabilmente – torna sempre in voga per motivare gli abusi nei confronti dei non umani.
Quella di salvare chi ci somiglia, invece, è una considerazione che di filosofico non può avere nulla, afferendo esclusivamente ai sentimenti, all’interesse e al tornaconto e/o beneficio che, direttamente o indirettamente, l’attore ricava dall’azione.
In definitiva l’unico, vero, obbligo morale che possiamo sancire è quello di “neminem laedere”, mentre quello di aiutare chiunque diverso da noi è un atto supererogatorio che denota senza dubbio tratti meritevoli, ma inidonei a giustificare la lesione altrui da parte nostra.
[1] Nicholas Fontaine, Memories pou servir à l’historie de Port-Royal, Cologne, 1738, vol.2, pag. 52.