Ci sono parole che, al di là del loro esatto significato, possono essere correttamente utilizzate senza che eventuali equivoci determinino sostanziali conseguenze all’atto pratico: per esempio, se andate dal fruttivendolo a chiedere di vendervi un “limone piccolo e verdino” anziché un “lime“, è molto probabile che vi capiate ugualmente, e, nella peggiore delle ipotesi avrete acquistato un limone acerbo anziché un lime.
Purtroppo il termine vegetariano non rientra nella categoria di cui sopra, poiché equivocare sulla sua reale portata può condurre ad azioni addirittura incoerenti rispetto agli scopi che qualcuno si è riproposto.
Seppur sovvertendo l’ordine del titolo, intendo partire esattamente dall’equivoco – che oserei definire eccezionale – attorno al termine, e dalle sue – altrettanto eccezionali – conseguenze pratiche: con buona pace di Mr. Donald Watson, che nel 1944 coniò il termine vegan, in realtà anche vegetarian contraddistingueva una dieta esclusivamente a base vegetale. Più precisamente i primi utilizzi dell’espressione vegetarian si rinvengono in Inghilterra tra il 1838 e il 1842, mentre proprio in quell’ultimo anno fece la sua prima apparizione anche in forma scritta sul numero 5 (del mese di aprile) della rivista The Healtian. Prima di allora l’unica definizione istituzionalizzata di chi si nutriva esclusivamente di vegetali era pitagorico, con riferimento alla dottrina dell’antico filosofo greco.
Che si voglia ricondurre il vocabolo vegetarian all’inglese vegetable, oppure al latino vegetus (forte, vigoroso), poco cambia: in entrambi i casi il chiaro ed esclusivo riferimento è quello al cibo vegetale e non alla carne o alla sola astensione da essa.
Negli anni si è creata chiaramente una dicotomia tra il significato esatto del termine, nonché la filosofia ad esso sottesa, e l’applicazione pratica: per questa ragione è andata definendosi l’espressione latto-ovo-vegetariano per contraddistinguere quelli che avevano deciso di alimentarsi si di latte e di uova, ma non di carne. La semplice esistenza di tale differenza terminologica evidenzia il corretto significato dell’espressione vegetarian: anche ragionando al contrario, è evidente che se già tale vocabolo avesse inteso descrivere qualcuno che si nutriva di latte e uova, non avrebbe avuto senso coniarne un altro appositamente.
Certamente non si trattava di un’espressione di comoda utilizzabilità, vista anche la sua lunghezza, e quindi è accaduto il paradosso: i vegetariani hanno finito per essere identificati sempre di più come latto-ovo-vegetariani, con la conseguenza che 100 anni dopo il signor Watson ha sentito il bisogno di creare una nuova categoria per sgombrare il campo dagli equivoci.
A mio modesto avviso l'”invenzione” dell’espressione vegan rappresenta un grave errore concettuale e ha aperto la porta ad un gravissimo equivoco, cioè che si possa essere rispettosi degli animali non umani adottando un’alimentazione latto-ovo-vegetariana, tanto che quest’ultima – ormai tanto universalmente quanto erroneamente equiparata a quella vegetariana sic et simpliciter – è considerata una sorta di primo passo verso il veganismo. Insomma, ciò che ha permesso l’idea del signor Watson è stato credere che ci siano una scelta etica vegetariana e una scelta etica vegana: anche i più sensibili fra noi all’argomento, essendo per natura molto più inclini ad aderire a pensieri altrui anziché crearne nuovi, hanno finito per illudersi che qualcuno abbia mai ipotizzato che l’alimentazione con prodotti di origine animale potesse considerarsi in qualche modo etica. Eppure storicamente, come si è visto, ciò non ha alcun fondamento.
Possiamo insomma concludere che nel presente chi ha adottato un regime vegetariano per motivi etici abbia realtà aderito ad un equivoco linguistico, che invece di essere superato è stato avallato dall’ideazione del termine vegan.
La mia scelta di utilizzare l’espressione vegetarismo rappresenta appieno il mio impegno per riaffermare molto più di una correzione etimologica, cioè l’esatto inquadramento etico della questione: finché si continuerà a pensare erroneamente a una contrapposizione concettuale tra vegetariano e vegano, si avallerà l’equivoco che ci possano essere due forme differenti di rispetto degli animali non umani a tavola, e che magari una sia meno estrema e quindi preferibile.
Ritengo che sarebbe assai più opportuno sottolineare che non può esistere una categoria mediana in simili questioni etiche: sarebbe come dire che esistano “assassini”, “assassini coscienziosi” che non torturano le proprie vittime e “non assassini”. Posto che esistono infinite pratiche dannose degli animali non umani e dell’ambiente, la sofferenza e la morte che derivano dalla produzione di latte e uova sono tali per cui sarebbe impensabile che qualcuno, impegnato ad affermare il rispetto nei confronti degli animali non umani, abbia mai potuto teorizzare una forma di alimentazione che li includesse, ritenendola etica.
In altri e più chiari termini, la persuasione di aver adottato un’alimentazione etica sposando il cosiddetto “modello vegetariano” rappresenta un equivoco fondato su un malcostume diffuso, che verosimilmente deve la sua origine al fatto che un certo numero di persone occidentali, preoccupate per gli animali non umani ma ancora più per il proprio palato, abbiano deciso di rinunciare alla carne ma non al latte e alle uova.
La cosa migliore che noi oggi possiamo fare non è quella di adeguarci pedissequamente a un modello fuorviante, perpetuando definizioni ridondanti o errori concettuali, bensì chiarire a chiunque che non esiste affatto una contrapposizione tra etica vegetariana ed etica vegana, e che il rispetto degli animali non umani implica necessariamente l’astensione dal loro utilizzo diretto o indiretto per finalità alimentari, così come realmente affermato dagli ideatori dell’espressione vegetarian.