Il diritto, nella società umana, è nato per disciplinare i rapporti tra consociati, quindi tra umani e umani: non era contemplata alcuna disciplina in relazione a rapporti interspecie, o, per esempio, tra uomo e ambiente.
Si evince subito una discrasia fondamentale in quanto sopra: animali e ambiente hanno da sempre costituito oggetti per l’esercizio di taluni dei suddetti diritti, a cominciare da quello di proprietà.
L’inclusione dell’animale non umano, del campo, o dell’albero, non è mai stata sancita formalmente, bensì costantemente data per scontata: tutto ciò che non è umano è rimesso alla sua disponibilità… anzi, a ben vedere tutto ciò che non è il legislatore lo è stato, considerati gli schiavi, le donne, i poveri, etc.
Oggi il diritto si è evoluto su basi ben differenti da quelle originarie: mentre ai tempi di Hammurabi si poteva immaginare come questione fondamentale essenzialmente la vita e la proprietà, alcuni millenni dopo sono sbocciati e maturati principi che sono considerati inalienabili, con riferimento all’espressione della personalità libera da vincoli, ma sono stati altresì introdotti soggetti inusitati, quali animali non umani e ambiente.
Io ritengo che nel presente stiamo commettendo errori non dissimili da quelli antichi, arrancando attorno ad un’idea sbagliata per definizione, cioè il diritto umano, antropocentrico, o, peggio ancora, “legislatore-centrico”.
- DIRITTO PURO E POSITIVO
Esiste un diritto, definito positivo, che consiste nell’insieme di norme codificate e recepite all’interno di un ordinamento, che è appunto l’ordinamento legislativo o giuridico.
Il positivismo giuridico, o giuspositivismo, afferma che esiste soltanto il diritto positivo, cioè quello coercibile, nei confronti del quale l’individuo può rivendicare una tutela: tutto il resto può essere inteso a vario titolo, ma mai ricompreso nella definizione di diritto vero e proprio.
Questa prospettazione ha storicamente contrastato quella del giusnaturalismo, secondo il quale invece esisterebbero dei principi innati, dei quali le norme legislative rappresenterebbero un mero recepimento formale.
L’avversione intellettuale che l’età contemporanea ha maturato nei confronti del diritto naturale ha condotto a contraddizioni ed espedienti, come quello della Costituzione italiana, che pur di evitare il ricorso all’espressione “diritti innati” ha fatto riferimento ai “diritti inalienabili”: laddove la prima locuzione rimanda inevitabilmente a qualcosa che preesiste tanto all’uomo quanto al legislatore, la seconda – all’insegna dell’understatement – allude semplicemente a qualcosa che, preesistente o meno, non può comunque essere negato, rimosso, alienato appunto.
Ma perché non può essere alienato, se non esiste alcun principio innato? Se tutto è fonte della volontà del legislatore, che poi è figlio del suo tempo e del suo contesto socioculturale, per quale ragione si dovrebbe considerare qualcosa intangibile?
Affermare che non esistano principi assoluti e innati, di cui le leggi sono mero recepimento, contraddice l’osservazione quotidiana: chiunque, anche senza studiare il diritto, o apprendere i costumi sociali, avverte una privazione allorchè subisce ciò che egli considera un torto.
Chiunque ritiene di aver subito un torto se, senza aver fatto nulla ad altri, viene percosso, ucciso, privato della libertà, etc.: ciò non in quanto esistono delle leggi, che egli conosce e che sa essere state infrante, bensì poiché le aspettative sono innate e pregiuridiche.
Se veniamo percossi senza aver provocato il nostro aggressore ci sentiamo “in diritto” di rivalerci su di lui, mentre lo stesso non avviene se, dopo aver aggredito qualcuno con un pugno, questi ci ricambia: benchè anche in questo secondo caso la legge ci offra tutela, non nasce in noi il medesimo senso di rivalsa o di ingiustizia.
La maggior parte delle speculazioni attorno al diritto, come molte altre in tema di filosofia morale, sono a mio avviso inutili cavilli che complicano e svuotano di significato le reali questioni, rivelandosi sterili dissertazioni accademiche non utilizzabili nella pratica e neppure utili per produrre norme migliori.
Possiamo anche non chiamare “diritto” ciò che non è sancito dalla legge: possiamo chiamarla “aspettativa”, oppure “rivendicazione”, oppure “pretesa”, ma ciò non cambia la sostanza che esistono delle istanze innate, che non si fondano sulle codificazioni e che non cessano neppure dinanzi a leggi che le disconoscono.
Se non ci fosse nulla di “innato”, non si comprende neppure come mai dagli albori delle leggi ad oggi certi contenuti si siano consolidati costantemente, e, allorchè disattesi, si siano verificate rivoluzioni, guerre e scontri per riaffermarli.
La storia e la storia del diritto insegnano che si è verificata una evoluzione in un verso ben preciso, e che quando si è provato a invertirlo, pur ricorrendo all’autorità e alla forza, non ci si è riusciti: se, come vuole il giuspositivismo, non esistesse altro diritto che quello applicato, perché, per esempio, le dittature del ‘900 sarebbero sparite sotto le spinte verso la libertà di espressione? Per quale motivo i consociati avrebbero dovuto considerare sbagliate le leggi che vietavano loro di contestare i governanti? La risposta è evidente: si tratta di quelle aspirazioni innate che spingono in un verso e in uno soltanto, che impone la formazione e l’adeguamento di norme che le rispecchino.
2. UNIFICARE I DIRITTI
Il percorso storico dei diritti è stato travagliato e talora contraddittorio: io ritengo che tutto ciò sia dovuto all’incapacità dei legislatori di sottrarsi realmente alla propria prospettiva, limitandosi a perorare gli interessi propri o dei propri elettori/finanziatori.
Per questa ragione le leggi riconoscono soltanto quei diritti i cui fautori assumono sufficiente potere socio-politico-economico, rappresentando un eterno inseguimento e contemperamento di interessi, che in democrazia dovrebbero essere ipoteticamente rappresentati in egual misura, ma che normalmente sono sbilanciati a priori.
Ecco dunque che il legislatore bianco ha schiavizzato i neri, l’ariano ha bandito gli ebrei, l’uomo ha degradato la donna, l’umano ha reificato il non umano, etc.
Per motivi pratici, così come filosofici, l’unica conclusione possibile è che SE esistono i diritti, allora essi devono spettare a tutto ciò che è, oppure non possono essere riconosciuti a nessuno.
Naturalmente non stiamo parlando del diritto civile, che per lo più nasce da contemperamenti di interessi contrapposti e non può che avere natura convenzionale: a differenza del diritto penale, che si fonda su concezioni morali innate, questo in molti casi vi prescinde totalmente, oppure vi deriva molto alla lontana.
L’equiparazione del diritto civile a quello penale è stata anche uno degli strumenti che hanno consentito a taluni giuspositivisti, in primis Bobbio, di contestare l’esistenza del diritto naturale: il fatto che singoli giusnaturalisti avessero cercato di derivare questioni come il diritto ereditario dall’osservazione della natura non implica che ciò fosse corretto, né che un principio di natura sia ravvisabile in tutte le leggi umane.
Insomma, io ritengo che se nel diritto civile è largamente condivisibile l’assunto del giuspositivismo, è altrettanto vero che ciò non trova riscontro nella norma penale, fermo restando che naturalmente si tratta di confini labili, poiché è pur sempre l’arbitrio del legislatore a determinare cosa sia civile e cosa penale.
Posto che si stia discutendo di definire i limiti delle interferenze con ciò che è altro da sé in relazione agli aspetti fondamentali dell’esistenza, stenterei a ritenere possibile l’applicazione di criteri differenti riguardo a tutto ciò che esiste: così come non è “giusto” interrompere la vita di un essere umano, non può esserlo neppure interrompere quella di un non umano, di un vegetale, o lo scorrere di un fiume.
Animali umani, non umani, vegetali, minerali: siamo tutti accomunati da un’origine comune e gli elementi che ci costituiscono sono in costante trasformazione da uno stato all’altro. Ciò che ieri era gas nell’aria o minerale nella terra, domani sarà parte di un corpo animale, e così via: ma se io riconosco il diritto a esistere al corpo animale, come posso negarlo al minerale o al vegetale che a loro volta gli hanno consentito di esistere?
Chi sostiene il biocentrismo dimentica che: i) la definizione stessa di cosa sia “vivo” è una convenzione, peraltro soggetta a numerose critiche e teorie differenti, ii) non conoscendo il fenomeno che consente a ciò che consideriamo “non vivo” di diventare “vivo” non è possibile a priori affermare che un atto compiuto sul primo non si ripercuota sul secondo, per esempio precludendogli di venire a esistenza, iii) tutto ciò che la scienza umana contemporanea qualifica come “vivo” può continuare a svolgere le proprie funzioni biologiche soltanto attraverso l’utilizzo e l’interazione con ciò che è “non vivo”.
Ciò che sfugge in tutte le teorie che cercano semplicemente di estendere i diritti, senza realmente rinunciare alla prospettiva soggettiva, è che in un sistema chiuso, quale su vasta scala può essere pensato l’intero universo, non si può escludere a priori qualche elemento, poiché tutti sono tra loro interconnessi e interdipendenti.
In termini filosofici si è tentato di circoscrivere (o, come nelle intenzioni di molti, “estendere”) la titolarità di diritti sulla base dell’intelletto, della capacità di parlare, di intendere e di volere, di sentire dolore, di svolgere un processo “vitale”: ma questi non dovrebbero essere presupposti per discriminare fra chi può avere diritti e chi no, bensì – semmai – parametri utili per determinare “quali” diritti riconoscere e a chi.
Chi possiede un intelletto che lo rende capace di pensieri complessi avrà, per esempio, diritto a manifestare quei pensieri, così come chi ha la parola di parlare, chi può soffrire a che non gli sia inflitta sofferenza, chi vive a non essere ucciso, chi esiste a continuare a farlo indisturbato, etc.
Soggetti diversi, caratteristiche diverse, esigenze diverse = diritti diversi.
3. CONCLUSIONI
Non ha senso parlare, distinguendoli, di diritti umani, animali, ambientali: tutto ciò che esiste è interdipendente e disconoscere la titolarità di diritti ad alcuni, attribuendola soltanto ad altri, rappresenta una discriminazione arbitraria e miope, che – per sillogismo – non consente di tutelare realmente alcuno, neppure quelli che si considerano “degni” di tutela.
Non è neppure necessario parlare di “diritto”, poiché le parole servono soltanto a richiamare concetti in base a convenzioni ed è sbagliato affezionarvisi tanto da non saper badare alla sostanza, restando ancorati alla forma, al nomen: tutela, diritto, aspirazione, aspettativa, etc. possono essere utilizzati e interpretati all’infinito, ma la questione fondamentale consiste nel recepire quei principi morali assoluti o assolutizzabili e tradurli in comportamenti e regole in grado di garantirli.
Dobbiamo definire questo impianto “diritto”, “legge”, “tutela”? Non penso sia importante, considerato che le parole hanno il significato che si decide di conferire loro: anche per questo motivo trovo sterili le infinite trattazioni sul significato del “diritto”, considerato che si tratta di un concetto ideato dall’uomo, e dunque descrivibile in qualsiasi modo questi intenda delinearlo.
Per contro, il “giusto” morale è un qualcosa che deve preesistere alle definizioni e alle interpretazioni, altrimenti sarebbe mero arbitrio (di popoli o individui poco importa): è questo cui le norme devono tendere, in modo imparziale e oggettivo, tanto che autore possa apparire un uomo quanto una donna, un umano quanto un non umano, etc.
Finchè i principi normativi saranno ispirati al favoritismo nei confronti del legislatore, ciò che è “giusto” non potrà trovare cittadinanza nelle leggi.
Finchè il nostro concetto di diritto tralascerà l’interconnessione di tutto ciò che esiste, sarà costretto a brancolare nel buio del pregiudizio e della discriminazione, quale strumento di vessazione nei confronti di tutti, giacchè non può esservi rispetto per alcuno se non vi è per ognuno.
Io ritengo che una teoria unificata del diritto sia l’unica soluzione possibile per uscire dalle crisi, cicliche e inevitabili, in cui le società umane hanno versato e continuano a versare a causa dell’incapacità di affrontare in modo imparziale le questioni fondamentali dell’esistenza.
Una volta che avremo compreso e affermato i principi atti a definire e inscrivere al loro interno tutto ciò che esiste, un po’ come per la fisica, anche il diritto potrà dirsi perfetto, cioè atto a disciplinare qualsiasi rapporto in modo corretto.
Per poter uscire dalla prospettiva soggettiva l’Eusebismo promuove l’adozione di cinque principi basilari, caratterizzanti la teoria morale, e dunque trasferibili nel diritto:
1) RISPETTO (rispettare ciò che è altro da sé)
2) POSSIBILITA’ (ripetibilità da parte di n soggetti)
3) EQUILIBRIO (gli interessi coinvolti devono ricevere reciproca soddisfazione)
4) CIRCOLARITA’ (primo principio della termodinamica, nulla si crea, nulla si distrugge: tutto si trasforma)
5) NON INTERFERENZA (non si deve interferire con l’esistenza, l’evoluzione o la sopravvivenza di ciò che è altro da sé)
In concreto l’unificazione del diritto può avvenire mediante una riformulazione delle norme volta a sanzionare tutte le condotte umane lesive non soltanto (direttamente) di altri umani, e rinunciando al concetto che il legislatore, o il gruppo che questi rappresenta, possa disporre arbitrariamente di tutto ciò che è altro da lui/dal suo gruppo.
La portata di un simile cambiamento è talmente radicale che oggi stenteremmo a immaginarne l’applicazione pratica ed è evidente che sarà necessaria una lunga transizione affinchè i valori sociali evolvano a tal punto da rendere pienamente applicabile un tale sistema normativo; tuttavia non ci si deve lasciar scoraggiare dalla complessità e dalla lunghezza del tempo che sarà necessario per realizzare compiutamente il cambiamento: per contro occorre focalizzarsi sull’importanza dell’intraprenderlo.
L’unico dubbio che sorge è se, giunti a un livello di consapevolezza così elevato, l’esistenza stessa delle leggi potrà avere realmente senso e utilità, tenuto anche conto che il numero di leggi è inversamente proporzionale all’evoluzione di una società.
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