CAMBIARE L’APPROCCIO AI PROBLEMI

 

Una volta un amico, al quale avevo chiesto come andassero le sue pene d’amore e se fosse uscito dal tunnel, mi rispose: “No, ma ormai me lo sono arredato!”.

Quella frase mi fece sorridere, ma in effetti rappresentava qualcosa che ben conoscevo e, quindi, comprendevo: non importa quale sia la ragione, ma tutti noi nella vita sperimentiamo molte volte la sensazione di trovarci letteralmente in un “tunnel”, avvolti dai problemi e senza via d’uscita, o perlomeno, non ancora in grado di vederla.

Chi non ha sentito quel nodo in gola salire e farsi strada senza mai uscire, mentre il cuore aumentava i suoi battiti fino quasi a scoppiare in petto? Chi non ha pianto così forte da pensare di non avere più lacrime da versare?

Per molti è successo perdendo una persona amata, o un non umano con cui aveva condiviso parte della sua vita, benchè sicuramente le ipotesi più frequenti siano quelle del cuore infranto per un rifiuto o una separazione, che spingono tantissime persone, se non già a darsi la morte, perlomeno a riflettere seriamente sulla possibilità di farlo.

Sicuramente la malattia, personale o dei congiunti, specie se invalidante o cronica, occupa un posto d’onore tra le fonti di ansia, preoccupazione e malessere psicologico.

Ci sono poi ansie differenti, che potremmo definire di origine sociale, e che ciclicamente si ripresentano: guerre, povertà, malgoverno, etc. Tutto ciò, più che in un tunnel, cala in una sorta di serra, al cui interno tutto sembra stagnante, opprimente, nefasto.

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L’APPROCCIO CLASSICO

C’è un modo in cui ci poniamo rispetto a ciò che ci impensierisce, “classico” ma senz’altro anche “ignorante”: iniziamo a risentirci, offenderci, dispiacerci, magari adirarci, e, se il lassismo non ha la meglio, anche a lottare.

 Ma la lotta è ignorante, poiché generalmente volta a contrastare meri sintomi di situazioni che sfuggono ancora alla nostra comprensione. Come si può combattere qualcosa che non si conosce?

 E questo è il primo problema.

 La seconda difficoltà deriva dal pregiudizio: “Non si può essere felici nelle avversità” e “Appena passeranno le avversità potrò ritrovare la serenità”. Soltanto che difficilmente la vita prende le strade che noi vorremmo, e quindi presto occorre confrontarsi con una constatazione di fatto: attendere l’assenza di perturbazioni per essere sereni significa attendere all’infinito.

La medicina contemporanea, un po’ come tutto il resto (ma in modo più lampante) manifesta perfettamente le aspirazioni di una società “usa & getta”, che non cerca reali soluzioni, ma soltanto occasionali e immediati appagamenti: rimedi palliativi che non costino, né richiedano, alcun intervento da parte dell’individuo.

 In questo modo un po’ zoppicante ci avviamo a cercare risposte nei luoghi più disparati: amici, confidenti, preti, libri, riviste, siti web, film, medici, guru, terapeuti vari, psicologi, esperti o presunti tali.

Normalmente l’utilità dei metodi è inversamente proporzionale alla disperazione: più siamo alla deriva, più le strade che coltiviamo divengono inusitate e talora irragionevoli.

Soprattutto, pare che all’aumentare del patimento cresca anche il nostro bisogno di rivolgerci ad altri per la soluzione dei problemi che ci attanagliano; ci occorre che qualcuno con un curriculum il più possibile esteso si faccia carico della nostra situazione, mentre il senso di impotenza cresce inesorabile.

 L’APPROCCIO LOGICO-MINIMALE

Contrariamente a ciò che l’istinto o i condizionamenti ci inducono a ricercare, dovremmo operare una sorta di reductio ad unum: ricondurre, cioè, all’interno di noi stessi ciò che apparentemente proviene dall’esterno.

L’osservazione ci permette di appurare che persone differenti, a fronte di situazioni analoghe, reagiscono in modi differenti: c’è chi convive con una malattia invalidante e diviene il più grande fisico del suo tempo, e c’è chi – invece – si abbatte e rassegna a vivere una vita breve e dolorosa, così come si può vivere una vita intera nel ricordo di una persona cara trapassata, oppure andare oltre subito dopo. Non esiste qualcosa come un’”equazione del dolore”, in base alla quale ad una circostanza “x” sia inevitabile una reazione “y”.

Questa banale considerazione implica che la sofferenza non è un fenomeno eteroindotto, bensì autoindotto.

A questo punto si potrebbe obiettare che se vieni lasciato dal partner, è dalla sua scelta che ti deriva nocumento, non certo dalla tua volontà; anche questo argomento è fallace, poiché neppure di fronte a una separazione è obbligatorio assumere uno stato d’animo anziché un altro: ciascuno di noi reagisce a proprio modo anche in questo caso, quindi siamo letteralmente liberi di stare male, bene o restare indifferenti.

La questione presenta qualche problematicità in più allorchè posta con riferimento al cosiddetto malessere sociale, cioè quello che si determina in ragione di particolari condizioni storico-politiche-economico-sociali. Il dubbio è: come si può trasformare la realtà politica o sociale a partire dalla volontà del singolo?

La domanda è mal posta, e risente della prospettiva tipica del c.d. approccio classico: l’inevitabile risposta è che non occorre alcuna trasformazione per essere sereni, o, perlomeno, privi di ansie e preoccupazioni tali da affliggere la qualità dell’esistenza.

La nostra capacità di estraniarci dai luoghi comuni, dall’educazione e morale impartite, nonché di resettare il nostro pensiero, determina il grado di libertà con il quale agiamo e reagiamo di fronte agli eventi della vita.

La differenza tra essere succubi dell’esistenza e l’esserne protagonisti risiede giusto nell’attitudine a modulare le proprie reazioni, riuscendo a ottenere da qualsiasi situazione un accrescimento, un’evoluzione, una conquista anziché una sconfitta.

Può, il semplice fatto di sapere che si è artefici della propria serenità, essere sufficiente di fronte a tutte le circostanze che affronteremo? Naturalmente questo non è sufficiente, ma è senz’altro necessario: dopo aver focalizzato l’attenzione sulla questione reale, si potrà iniziare a decostruire gli altri luoghi comuni e assumere l’atteggiamento di autocritica costruttiva da cui può derivare la compiuta realizzazione di sé.

L’APPROCCIO LOGICO-EUSEBISTA

L’approccio logico-minimalista consente di demolire e ricostruire, ma nulla dice circa gli strumenti ermeneutici dell’esperienza che chiamiamo vita: si può tranquillamente limitarsi ad una logica materialista per uscire dal gioco dell’irrazionale e inutile (in quanto fine a se stessa) ansia di vivere, ma soltanto approcciando la metafisica si può entrare nel merito delle singole e specifiche questioni, affrontandole scevri da qualsiasi fideismo, e con piena cognizione di causa.

Il karma – e con ciò non intendo il concetto sotteso a religioni/culti/filosofie orientali, bensì quello delle ricerche condotte da Weiss, Moody, Bona, Malanga, etc. – offre la chiave per la comprensione concreta di ciò che accade e consente di contestualizzare la propria esperienza nell’universo.

Il principio essenziale da tener presente, la stella polare dell’esploratore della coscienza, è quello dell’evoluzione: non si tratta di un concetto astratto, idealizzato o ipotetico, bensì di una realtà contingente, che non è intaccata dal fatto di essere relativamente (ancora) poco conosciuta o compresa.

L’evoluzione in senso karmico si può considerare consapevolezza, e marcia di pari passo con essa: ciò spiega in modo molto semplice scopo e significato di quelli che definiamo “problemi” o “prove”.

In realtà l’esistenza sul piano virtuale (incarnazione) ha una finalità, che non può essere considerata avulsa dai fatti che la contraddistinguono, in quanto è proprio per sperimentarli che ci troviamo “qui”.

Nell’approccio logico-eusebista (o anche karmico) risulta chiaro che, per quanto strano possa sembrare, pretendere una vita priva di “problemi” sarebbe paradossale quasi quanto pretendere di andare al cinema senza voler guardare il film.

E, d’altronde, altrettanto paradossale sarebbe rifiutarsi di guardare il film per la paura che esso… finisca.

Così come si frequenta l’università e si sostengono gli esami per apprendere, allo stesso modo si partecipa a una rappresentazione virtuale basata sull’esperienza fisica: è evidente che sottrarsi a quest’ultima vanificherebbe la prima, ed è dunque altrettanto ovvio che l’unico vero timore che dovremmo avere (se mai…) è proprio quello di vivere (nella simulazione) senza fare esperienza, dunque senza acquisire consapevolezza.

Dal momento che qualsiasi esperienza, sia essa “positiva” o “negativa” nel significato che tali termini generalmente possiedono, reca un’occasione di evolvere, cambiando la prospettiva viene spontaneo acquisire la capacità di affrontare con serenità qualsiasi situazione, imparando a domandarsi: “Cosa ho da apprendere da essa?”.