UNA REPUBBLICA COSTITUZIONALE FONDATA SUL RISPETTO

isola e lavoro

In quel minuscolo ammasso di terre (provvisoriamente) emerse, che nelle attuali condizioni geopolitiche e a seguito di miliardi di anni di trasformazioni morfologiche e migliaia di anni di sanguinose guerre, rivoluzioni, invasioni e occupazioni, identifichiamo con il nome di Italia, fin dai tempi del fascismo e successivamente perfino nella costituzione repubblicana, è stato sancito il principio del lavoro come espressione fondamentale dell’individuo e della sua partecipazione alla società.

Già il fatto che proprio le più grandi dittature del novecento abbiano fondato o perlomeno esaltato l’importanza e la necessità di lavorare, a un acuto osservatore potrebbe suggerire qualche opportuna riflessione sul reale significato e sulle implicazioni del fenomeno.

Eppure, se è naturale che qualunque dittatore o governante sia particolarmente lieto di imporre un rigido sistema di controllo, inquadramento e occupazione del tempo dei suoi consociati, è assai più curioso che proprio questi ultimi finiscano per esserne i principali fautori e sostenitori.

Un cittadino che chiede al suo governante più lavoro ricorda esattamente la situazione in cui uno schiavo chieda al proprio padrone di accorciargli le catene: il tempo che viene dedicato in modo preordinato e sistematico all’assolvimento delle mansioni lavorative è inversamente proporzionale alla libertà residua dell’individuo. Se qualcuno rapisse la nostra famiglia, e, dietro minaccia di ucciderla, ci obbligasse a rubare qualcosa a qualcun altro, probabilmente ci sentiremmo autorizzati a farlo ritenendo il nostro interesse preminente e prioritario, ma di certo, affrontata un’esperienza simile, difficilmente ci sogneremmo di desiderarne tante altre identiche. Di sicuro non saremmo noi a chiedere ai nostri aguzzini di commissionarci altri furti o rapine. L’unica cosa che vorremmo dai rapitori dei nostri cari sarebbe che ci restituissero la libertà, cioè la libertà di stare con la nostra famiglia rapita, la libertà di decidere come impiegare il nostro tempo e se danneggiare o meno altre persone.

Eppure, in una società in cui la sopravvivenza nostra e dei nostri cari è assoggettata alla condizione inderogabile ed eteroimposta di lavorare per guadagnare soldi da spendere per fornire quanto occorre alla sussistenza, anziché rivendicare l’interruzione di quella minaccia o dell’obbligo che ne consegue, e, conseguentemente, la liberazione nostra e dei nostri cari, noi invece invochiamo la perpetuazione di quella situazione e l’aumento dell’intrusione nelle nostre esistenze.

La logica sarebbe semplicissima: tutti gli animali della Terra, prima che intervenisse l’uomo, sono nati, si sono evoluti e sono prosperati esclusivamente mediante l’accesso diretto alle risorse indispensabili per la loro sopravvivenza. Attraverso la perversione innaturale della proprietà privata, che ha determinato la segregazione sociale e il conseguente sistema di tensioni, invidie e perenni aspirazioni, beni essenziali come l’acqua e il cibo sono diventati per definizione inaccessibili e intangibili da parte dei cittadini, poiché ciò che è demanio pubblico non può essere utilizzato senza l’autorizzazione dello Stato. Lo Stato, benché autorizzi dietro pagamento l’assassinio di animali inermi per finalità ricreative e l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e della terra per motivi meramente economici, non ammette che le persone possano coltivare a raccogliere nemmeno in quelle aree di terra ove non sono già stati costruiti palazzi o che non appartengono a nessun privato. Insomma, ci è per legge vietato sostentarci autonomamente: dobbiamo, invece, lavorare, pagare le tasse, e poi comprare le cose da altri che, a loro volta, sono vittime dello stesso sistema.

Non è difficile pensare a una condizione futura in cui l’aria contaminata rappresenti una minaccia alla sopravvivenza collettiva, e pertanto perfino l’accesso ad aria pulita e incontaminata possa diventare a pagamento. Un individuo nato in una società che, a causa della penuria di aria pura, ne assoggettasse l’utilizzo al pagamento di un corrispettivo o di una tassa, darebbe per scontato e naturale che le cose funzionino in quel modo e sicuramente non farebbe altro se non chiedere di poter lavorare di più per potersi permettere una maggiore quantità di aria. Anche soltanto il fatto di poter pensare che si possa chiedere a un governante di concedere direttamente aria, cibo o acqua gratuitamente, comporterebbe l’aver vissuto in un mondo organizzato in modo alternativo, oppure uno sforzo di immaginazione notevole. D’altro canto la fantasia, l’immaginazione e la facoltà critica sono beni sempre più rari e sempre più minacciati dall’utilizzo di intrattenimenti che, sollevandoci dal peso del pensiero autonomo e della creazione originale, ci riempiono di alternative per occupare ogni istante delle nostre vite, compreso quello che spendiamo con le persone più care.

Soltanto gli schiavi che abbiano perduto qualsiasi senso di vivere e qualsiasi speranza di liberazione potrebbero invocare catene ancora più corte di quelle che già li costringono.

C’è chi legge nella Costituzione, che sancisce la fondazione della Repubblica sul lavoro, un meraviglioso traguardo e una base da cui muovere rivendicazioni nei confronti dello Stato: più lavoro per tutti, la promessa elettorale più inflazionata dalla fondazione dei fasci di combattimento a oggi. Gli schiavi in catene che acclamano a gran voce il padrone che promette di accorciare quelle catene. Il paradosso di un paradosso.

Esattamente come l’individuo al quale hanno rapito la famiglia, ciascuno di noi pensa al proprio lavoro non soltanto come una libera scelta, ma come una sorta di dovere e necessità che automaticamente sopravanza tutto il resto: “io sto lavorando, mica sto a divertirmi”, oppure “l’ho dovuto fare per lavoro”, o anche “è lavoro quindi non si può dire di no”. Quante di queste frasi sentiamo pronunciare o pronunciamo a nostra volta quotidianamente? Di solito lo facciamo per soverchiare qualcun altro, per affermare la priorità e la prevalenza dei nostri interessi su quelli altrui. E che importa, poi, se soltanto un quinto di quello che guadagniamo lavorando lo spendiamo davvero per mangiare? Il nostro tempo, mentre lavoriamo per guadagnare soldi che useremo per comprare sfizi inutili, per qualche strano motivo varrebbe comunque più del tempo libero che qualcun altro magari trascorre semplicemente con i propri cari.

Lavorare ci attribuisce automaticamente il diritto di passare davanti e sopra a una miriade di altre cose: non veder crescere i nostri figli, non coltivare il rapporto con i nostri amici o parenti, la salute, il piacere, la ricerca interiore, la serenità, l’istruzione, la comprensione degli altri, gli interessi con le occupazioni non lavorative altrui, la coltivazione delle nostre personalità o dei sogni, eccetera.

Una volta avevo un fratello e gli volevo bene. Come se ne vuole a un fratello. A lui non serviva un fratello, ma un collaboratore o un dipendente o un socio: comunque qualcuno che, se avesse fatto il suo stesso lavoro, lo avrebbe svolto secondo i suoi dettami, ai suoi ordini, e accettando quanto lui avesse voluto pagare (o non pagare). Accettai tutto, poiché mi dicevo che l’affetto viene prima del resto. Dopo alcuni anni ci riprovai. E venni nuovamente scavalcato, additato poiché gli ideali avrebbero potuto danneggiare i profitti.

Il lavoro come il dio dei crociati: un simulacro al quale immolare chiunque e qualunque cosa.

Come si può, dunque, non temere una nazione che si fonda sulla privazione della libertà dei suoi individui, sulla loro spersonalizzazione, alienazione, e, in definitiva, sulla prevaricazione elevata a metodo di vita?

Alle repubbliche, ai governanti, agli individui che fondano le proprie esistenze sul lavoro dovremmo contrapporre stati, governi e persone fondati sul rispetto. Ma anche sulla condivisione.

In qualità di individui liberi e pensanti dovremmo invocare con forza il diritto a vivere di più e lavorare di meno, cioè a non essere obbligati a farlo per soddisfare i bisogni fondamentali, e, soprattutto, a non essere continuamente spinti verso bisogni indotti che corroborano l’illusione della necessità del lavoro come strumento di liberazione o emancipazione.