A COSA SERVE VOTARE?

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“Se non voti vincono gli altri”. Questo, più o meno, il monito adoperato da quelli che, attraverso il voto, si ripropongono di fare la differenza, di solito votando per un partito minoritario o del tutto marginale. Alla base di questa visione ci sono alcune idee preconcette:

1)     la politica può cambiare la vita delle persone e/o trasformare la società,

2)     un partito può fare meglio degli altri,

3)     la propria visione politica è migliore, ma se è marginale è perché la maggior parte delle persone non capisce o non è sufficientemente informata,

4)     il fatto di non votare affatto avvantaggia i partiti maggioritari,

5)     è meglio votare il male minore che non votare affatto.

Esaminiamo analiticamente le premesse, prima di procedere oltre:

1)     la politica può cambiare la vita delle persone e/o trasformare la società.

I politici nascono dalla società cui appartengono, ne vengono eletti, e faranno leggi a questa destinate. Ciò significa che la maggior parte dei politici rappresenta la mentalità della maggior parte delle persone. Se si è convinti che la maggior parte delle persone sbagli, non si può pensare che in alcuna elezione si affermi una parte politica che non sbaglia.

Ritenere che i mali sociali possano essere sanati attraverso la politica sottende peraltro una visione superficiale della società: come se i problemi che la travagliano fossero veramente correlati alle tasse, ai servizi offerti o alla natura delle leggi prodotte. Il primo problema è il legame della politica con il potere economico, e questo è ed è stato evidente da lunghissimo tempo nella storia umana. Oggi il potere economico è concentrato nelle mani di pochissimi soggetti, che in generale detengono quote del mercato dei consumi sempre più ampie: dal cibo alle automobili, dall’energia ai trasporti, etc. Quella forza, cioè il potere economico, nasce dai consumatori. In particolare da quelli che pensano di scegliere come essere governati nella cabina elettorale, e fuori da essa alimentano quei soggetti, che poi lamentano interferire con la politica. Anzi. Si risentono molto se l’abito o il cibo non portano quei marchi che riconoscono ormai da anni, e dietro cui si cela sempre più spesso lo stesso soggetto.

E, quindi, come è possibile che un partito cambi la società che l’ha prodotto ed eletto? È un controsenso. Se ne condivide i valori, non potrà/vorrà modificarla. Se non ne condivide i valori, non verrà eletto. Affermare il contrario significherebbe alimentare un paradosso, oppure ipotizzare un falso ideologico: un partito che si candida con un programma falso, per poi sbaragliare ogni aspettativa e trasformare la società con leggi e decisioni del tutto diverse. Leggi e decisioni che, però, sarebbero del tutto impopolari, e quindi inapplicabili. Ma se anche fossero applicate e osservate rigidamente, nel giro di cinque anni al massimo verrebbe cancellato quel partito e sostituito con un altro che restaurerebbe l’ordine pregresso.

Ancora, pensare che la politica possa risolvere i problemi vorrebbe dire pensare – semplicisticamente – che sia stata la politica stessa a causare i problemi, e non le persone che compongono la società. Ma questo, ancora una volta, non è possibile. Se io non voglio derubare qualcuno, non lo derubo anche in assenza di leggi che mi puniscono, o di forze dell’ordine che me lo impediscono. Parlando di ambiente – questione che pare essere al centro delle preoccupazioni dei più – in che modo, una legge può fare la differenza rispetto alla volontà individuale? Per non consumare o inquinare non c’è bisogno di aspettare un divieto autoritario. Basta non farlo. Ma il primo modo per non farlo è cambiare o cessare i consumi e il consumismo. E questo nessuno stato può permetterlo o incoraggiarlo. Non foss’altro che questo affosserebbe l’economia fondata sul PIL, farebbe perdere posti di lavoro e quindi manderebbe a rotoli lo stato fondato sull’economia e sulle tasse.

Questo ci porta al secondo punto.

2)        Un partito può fare meglio degli altri.

Abbiamo visto che, per motivi di logica, non è pensabile che la politica abbia creato i problemi della società, ma che è la società stessa che li crea, e che inevitabilmente produce politici che li alimentano. C’è chi vota per mantenere le cose come stanno (la maggioranza), e chi lo fa per cambiarle. Cambiarle presuppone pensare che un partito possa fare la differenza.

Quanto alla possibilità che un singolo politico eletto possa trasformare la società: è evidente che in democrazia ciò non possa avvenire, e che di conseguenza un individuo “illuminato” non potrà fare alcuna differenza. Bisogna, quindi, essere convinti che l’intero schieramento possa farla. Ma per credere questo bisogna anche credere che tutti, in quel movimento, la pensino allo stesso modo. Altro fatto impossibile. Ma la società con cui si misurerà un partito sarà esattamente la stessa con cui si misureranno tutti gli altri partiti, e pertanto o aderirà alla visione di massa, o ne sarà travolto, e così i suoi conseguimenti, entro l’elezione successiva.

Inoltre pensare che un partito possa fare meglio degli altri significa comunque essere convinti che il sistema, nella sua globalità, sia funzionante, funzionale ed efficiente, e cioè che i politici siano realmente detentori di un potere e che non rappresentino interessi individuali o egoistici od opportunistici.

3)        La propria visione politica è migliore, ma se è marginale è perché la maggior parte delle persone non capisce o non è sufficientemente informata.

Questo argomento è inevitabilmente fallace, in primo luogo poiché parte da una posizione presuntuosa, cioè che tutti gli altri sbaglino e di essere portatori di verità assolute e “illuminate”. Ma questa è la convinzione della maggior parte di quelli che votano per un cambiamento, solo che non tutti concordano sul modo e sulla direzione, e quindi, ancora una volta, si ricade nel paradosso: ognuno è convinto di dover far prevalere la propria visione, ma ci sono più visioni contrastanti, dunque è impossibile che siano tutte corrette. Qualcuno deve sbagliare. Potenzialmente chiunque può sbagliare, e quindi avanzare la pretesa di imporre la propria visione agli altri è erroneo per definizione, poiché ciò implicherebbe essere sicuri di avere ragione. Questo, del resto, è il ragionamento alla base delle rivoluzioni. Che, oltre ad essere intellettualmente inammissibili, sono inutili: si può imporre la visione di pochi a molti per un certo periodo di tempo, ma prima o poi la volontà collettiva verrà espressa e sovvertirà l’ordine imposto tramite la rivoluzione, così annullandola e anzi solitamente restaurando condizioni ancora più estreme di quelle pregresse.

Ma d’altronde, se fosse vero che chi promuove il cambiamento stesse facendo la scelta giusta, comunque non potrebbe aspirare a trasformare la mentalità degli altri attraverso la politica: i politici non potrebbero ottemperare al loro mandato e sarebbero semplicemente ostacolati da una società che non condivide il loro pensiero. Al contrario, fornire alle persone le informazioni che hanno condotto i promotori del cambiamento ad esso è l’unico modo per consentire a tutti gli altri di valutare autonomamente la bontà di quel cambiamento, e quindi promuoverlo a loro volta consapevolmente.

Insomma, non c’è cambiamento duraturo che non passi attraverso la consapevolezza. Pensare di “educare” una società attraverso leggi impopolari frutto di valori non condivisi è impossibile. Si finirebbe soltanto per determinare ancora più tensione fra le parti sociali e fra chi governa e chi è governato, innescando un sentimento di ribellione o alimentandolo.

4)        Il fatto di non votare affatto avvantaggia i partiti maggioritari.

5)        E’ meglio votare il male minore che non votare affatto.

Questi due argomenti possono essere affrontati congiuntamente.

I partiti hanno bisogno che si voti. Non che si voti necessariamente “quei” partiti. Ma che si voti. Il fatto che la gente vada a votare implica che questa aderisca concettualmente al sistema (elettorale), cioè che lo legittimi. Se una cosa non ci piace affatto, la evitiamo. Se sappiamo già che quei partiti sono “di maggioranza”, allora sappiamo anche che quegli altri non governeranno, e se non governeranno di fatto la loro presenza sarà trascurabile in parlamento, quindi in realtà che i partiti di minoranza vengano votati o meno non cambierà davvero le cose. Farà apparire meno assoluto il potere della maggioranza, ma di fatto questa governerà. Farà illudere di essere rappresentati, ma di fatto non lo si sarà. Consentirà, insomma, di perpetuare un sistema che si avversa.

Se si ritiene che il sistema politico sia corrotto, illegittimo, basato su malversazioni, è allora evidente che aderirvi, votando, significa riconoscergli una legittimazione. È un paradosso: si avalla ciò che si contesta. Si permette di sopravvivere a ciò che si vuole interrompere. Si votano partiti minoritari che non potranno fare la differenza così consentendo a quelli maggioritari di continuare nel loro strapotere.

C’è poi la teoria del “male minore”. Anche questa concezione, di fatto, finisce per avallare il sistema che si avversa. Anche questa discende da un paradosso: si vota quello che non si ritiene “bene”, ma “male minore”, con l’effetto di far eleggere comunque un “male”. Cioè si avalla qualcosa che si considera “male”.

Come se qualcuno ci mettesse in mano una pistola e ci dicesse di scegliere se sparare a nostra madre o a nostro padre: l’unico modo per uscirne è esimersi dallo sparare. Non esiste una soluzione “giusta” differente, per il semplice fatto che è il sistema stesso ad essere sbagliato. Non è giusto porre di fronte a simili scelte. E se il sistema non produce altro che due alternative sbagliate, allora l’unica posizione corretta è quella di non avallare il sistema. Prima o poi a nessuno verrà messa in mano una pistola, chiedendo di scegliere chi sacrificare. Ma finchè andremo a votare, all’interno di una società inconsapevole che produce mostri, e quindi mostri politici, saremo noi stessi a metterci in mano quella pistola, e ad essere i mandanti degli omicidi.

CONCLUSIONI

Le obiezioni più diffuse al non votare sono in primo luogo che si tratti di utopia, poiché per funzionare deve essere esercitato da tutti il non voto. Ma questa è una falsa argomentazione: lo stesso potrebbe dirsi con riguardo a qualsiasi votazione. Se non c’è una certa quantità di voti non si viene eletti. Il voto singolo non fa la differenza, ma l’elezione si basa sulla somma di voti singoli. Ognuno deve pensare a se stesso e alla propria scelta come individuo. Dalla somma di individui nasce la scelta globale. Finchè ciascuno pensa “non posso fare la differenza”, non la farà.

C’è poi la questione morale: se il sistema nella sua interezza si ritiene sbagliato, avallandolo si compie un atto immorale, poiché si avalla qualcosa che si ritiene essere sbagliato. C’è, poi, da comprendere cosa sia realmente il “male minore”: spesso si indica così ciò che contrasta il cosiddetto “male maggiore”. Spesso i movimenti nati dall’antagonismo sono apparentemente migliori, semplicemente poiché rappresentano il “nemico del nemico”, ma in realtà possono rivelarsi perfino peggiori: fondare il governo di una nazione su una mera contrapposizione è fallimentare, poiché sottende la mancanza di idee o programmi, salvo quello di “andare contro”. Peraltro una società evoluta e consapevole non avrebbe bisogno di guide politiche, ma soltanto di amministratori onesti. Per contro scambiare l’onestà in politica come indice di attitudine a governare bene è frutto dell’etica distorta imposta dai nostri tempi, in cui pare che l’unica cosa importante sia allontanare la corruzione dalla politica. Ma così non è. È fondamentale, ma non è l’unica cosa. Eleggere qualcuno incapace o impreparato a governare solo perché promette di non farsi corrompere è ancora più utopistico di tutto il resto: in realtà si elegge qualcuno soltanto perché… non è un politico. Cioè si elegge alla guida di un paese qualcuno che non ha la capacità di guidarlo, perché lo si ritiene “puro”. Anche questo è un effetto perverso di un sistema integralmente sbagliato, che induce a votare il “nuovo” o il “diverso” solo perché tale, e a prescindere dal fatto che questo dovrebbe essere prima di tutto “bene” e poi anche “meglio” delle alternative.

Ma un popolo scontento e da lungo tempo insoddisfatto che altro può fare, se non accontentarsi della diversità come elemento di fede? Ecco, così, che si finisce per passare dal governo dei corrotti al governo degli incapaci. I primi non hanno la volontà di fare bene, i secondi non hanno la capacità. Non esiste movimento di protesta che possa esimersi da questa regola, poiché è per definizione collegato a ciò che avversa: è il tipico caso di quelli che sono “stanchi di come vanno le cose” e si candidano per cambiarle. Non perché hanno una vita di preparazione e studio alle spalle, ma perché “stanchi”. Solo che, si dimentica, chi governa dovrebbe possedere prima di tutto le capacità per farlo: le guide morali e spirituali non siedono in parlamento. Là siedono quelli che dovrebbero amministrare la cosa pubblica con competenza, onestà e dedizione. Se manca la prima, le altre due restano nobili propositi, del tutto irrilevanti.

Ecco, quindi, che votare per “il nuovo” in quanto “nuovo” equivale al decidere di abbandonare l’automobile condotta da uno che ha perso dei punti sulla patente, e, per la paura di avere un incidente, salire invece a bordo di un’automobile condotta da un bambino. Altro è non rispettare le regole, altro non conoscerle.

Qual è la soluzione? Non curarsi affatto della politica. Non farsi coinvolgere dal sistema che la impone, e comprendere che qualunque forma di politica non potrà modificare una società che non è in grado di modificarsi da sé. Comprendere che la scelta vera, l’unica di cui ciascuno dispone, non è da esercitare nella cabina elettorale, ma nella sua vita, tutti i giorni. E questo non è utopia: è la banale e ovvia realtà.