Ultimamente si fa un gran parlare di antispecismo e molti iniziano a definire se stessi mediante questo termine, tanto che non è raro incontrarlo fra le preferenze politiche, o anche religiose, nei profili degli utenti dei social network.
A me sembra che una simile definizione non sia soltanto limitante della persona, ma anche delle idee e, in definitiva, del mondo che si intende costruire.
Essere “anti” qualcosa dovrebbe, per definizione, riguardare l’inclinazione e il pensiero soltanto in relazione a quel determinato fenomeno; si può, per esempio, prendere posizione sul razzismo professandosi anti-razzisti, oppure sul sessismo, come anti-sessisti.
Ma si può improntare se stessi esclusivamente (o fondamentalmente) all’esistenza di un fenomeno che si intende contrastare? L’effetto più perverso è quello di legarsi ad esso e, dunque, perdere ogni ragion d’essere al suo venir meno.
Inoltre promuovere un momento critico, senza accostarvi quello organico, equivale ad appoggiarsi ad un muro che si sta cercando di demolire: una volta riusciti nell’impresa ci si troverà in terra insieme ad esso, non avendone nel frattempo elevato alcun altro.
Dal teorico al pratico, l’esaltazione della contrapposizione rappresenta probabilmente la scelta più immediata e appagante, ma difficilmente condurrà al risultato migliore, senza contare l’ulteriore effetto perverso insito in ciò: ogni volta che si promuove il proprio ideale, si nomina – dunque si promuove – anche l’ideale antitetico, da un lato perpetuandolo, dall’altro riconoscendogli importanza e, infine, dovendosi sempre misurare con esso.
Se si parte da un modello che si considera inadeguato dalle fondamenta, non c’è alcun motivo per proporre un modello che vi si rapporti, neppure in modo antitetico: occorre semplicemente pensarne uno nuovo e differente, privo di legami di sorta.
Nel definirsi antispecisti si finisce in una sorta di paradosso, poiché è impossibile vivere nel mondo contemporaneo (ma anche in quello antico), trattando esattamente allo stesso modo tutte le specie, quindi intanto alla base della corrente di pensiero si pone inevitabilmente una distinzione tra regno animale, vegetale e minerale, che porta a prendere in considerazione soltanto i membri del primo.
Neppure tra le specie animali si può seriamente affermare di rinunciare a qualsiasi forma di discriminazione, poiché – diversamente – si dovrebbe considerare del tutto equiparabile l’investimento in auto di un moscerino a quello di un essere umano o di un cane. In questo senso la giustificazione consiste nell’affermare che l’ordine di appartenenza degli “animali” rispetto a quello degli “insetti” è di gran lunga differente, così come la percezione del dolore, le facoltà cognitive, etc. Insomma, si finisce semplicemente per spostare la dissertazione dal confronto “umani-non umani” a quello “animali-insetti”.
Questo, naturalmente, senza considerare le questioni del regno vegetale, spesso liquidate con superficialità: “le piante non soffrono”, oppure “le piante non strillano” (ed entrambe le affermazioni sono smentite dalla scienza).
In realtà è evidente che sussistano numerose differenze tra le specie e che l’esistenza umana non consenta realmente di considerarle tamquam non essent, senza, di fatto, operare in base a distinzioni che finiscono per essere arbitrarie e soggettive.
La soluzione non è quella di negare alcune diversità, salvo poi affermarne altre, né tantomeno quella di istituire confini al di sotto dei quali sentirsi moralmente integri qualsiasi cosa si faccia: dovremmo piuttosto sforzarci di promuovere un mondo e una cultura in cui il rispetto non sia frutto di scelte arbitrarie, più o meno sagge, bensì un fatto intrinseco e riconoscibile a chiunque e a qualunque cosa, nel modo e grado più ampio possibile, in base al principio di equilibrio.
Coniando il termine “specismo” si è peraltro finiti per attribuire una dignità e un riconoscimento ad una condotta che, a ben vedere, non è probabilmente deliberata, né tantomeno sentita o razionalizzata: benchè si tratti pur sempre di una discriminazione, non ha nulla a che vedere con comportamenti quali il razzismo o il sessismo, che non a caso sono appannaggio esclusivo della specie umana. Lo “specismo” è innato in qualsiasi animale, che persegue gli interessi della propria specie, anteponendoli a quelli delle altre: in questo senso il problema degli esseri umani non consiste nel fatto di preoccuparsi eminentemente dei “più simili”, bensì nello sfruttare tutti quelli che non sono reputati tali, e, soprattutto, di farlo per il piacere o il tornaconto e senza alcuna esigenza.
Personalmente credo che a livello etico non sia giustificabile neppure il “parentelismo” (così potremmo chiamare la discriminazione di chi anteponga i propri parenti ai non parenti), ma la differenza tra l’inclinazione personale e il dovere sta nel diritto altrui: finchè una scelta individuale, pur tesa a privilegiare qualcuno, non danneggia ingiustamente altri, è una libera scelta. Nel momento in cui si decide di anteporre chiunque a chiunque altro, cagionando a quest’ultimo un danno, si esonda dalla libertà di scelta e si sfocia nell’arbitrio.
La proposizione dell’Eusebismo è semplice: affermare rispetto ed equilibrio nella massima misura possibile e al di fuori della prospettiva dell’osservatore, progettando un mondo in cui è possibile riconoscere tutte le differenze esistenti, senza però discriminare in base ad esse e dove, una volta crollati quei muri che si cerca di demolire, non si finisca in terra insieme ad essi, ma si resti saldi in piedi in un mondo nuovo, senza bisogno di muri.