LA CUCINA NATURALE NON ESISTE

natural

 

Fra tutti i cacciatori di quelle che in Italia, con un termine a mio avviso assai deprecabile, vengono chiamate “bufale”, ne è sfuggita una a dir poco lapalissiana: c’è chi si prodiga a spiegare come aerei da trasporto passeggeri abbiano attraversato 4 o 5 muri di cemento armato, salvo poi disintegrarsi completamente e senza lasciare traccia; c’è chi accusa di allucinazione collettiva quelli che vedono scie di aerei non scomparire, ma allargarsi fino a velare tutto il cielo; c’è perfino chi sostiene che siano visionari quelli che hanno considerato cancerogeno il consumo di carne, dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha dichiarato.

Uno degli argomenti più interessanti da affrontare con persone che hanno idee o esperienze differenti è sempre quello del cibo elettivo della specie umana: è un po’ come parlare di politica, religione e tifo sportivo in un’unica questione. La maggior parte delle persone, posta di fronte a una riflessione sull’alimentazione, è incline a difendere la propria preferenza o abitudine: come potrebbe essere altrimenti? In altri termini, quanti di noi scelgono spontaneamente, autonomamente e a prescindere da contesto socio-culturale e famigliare, come nutrirsi?

Se nasciamo in Cina non ci chiediamo quale lingua parlare: ci insegnano il cinese, e noi parliamo cinese. Non è una scelta ponderata. Non c’è uno studio pregresso. Non c’è alcuna comparazione tra facilità, efficienza, o piacevolezza dei differenti idiomi. Parliamo come parliamo, e ci nutriamo come ci nutriamo, poiché ce lo hanno insegnato.

Già i greci discriminavano in base al linguaggio, schernendo i non greci attraverso la definizione onomatopeica di barbari (cioè quelli che, come balbuzienti, ripetevano “bar – bar”, non sapendo pronunciare le parole greche).

Difficilmente, salvo che andiamo a vivere in un paese straniero, qualcuno metterà in discussione la lingua che parliamo, ma assai più facilmente potrà accadere che sia contestato il nostro modo di mangiare. Ed ecco, giustappunto, che si scatena il “tifo” alimentare, e che tutti noi diventiamo storici, biologi, nutrizionisti, filosofi, medici, scienziati interdisciplinari che vanno ragionando secondo i più raffinati studi pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche, offrendo lampanti evidenze che, in realtà, non ci siamo limitati a mangiare quello che ci hanno insegnato i nostri genitori o che troviamo nei supermercati o nei ristoranti. No. In realtà noi abbiamo compiuto studi approfonditi, fino a pervenire alla incontrovertibile conclusione che quel modo di alimentarsi è quello giusto o necessario.

Ed è così che perveniamo ad uno dei più grandi paradossi del nostro tempo: la “cucina naturale”, una definizione che è un autentico ossimoro, e che, tuttavia, non stentiamo a profondere in ogni dove. Spesso chi la adopera intende vendere qualcosa, ma non di rado lo fa per difendere le proprie scelte. Abbiamo, con la natura, un rapporto assai misterioso: da un lato la contrastiamo e sviliamo quotidianamente; mentre, dall’altro lato, ci piace sentirci “naturali” o “ecologici”.

In effetti sia il significato di “naturale” che quello di “ecologico” sono per noi sfuggenti: vogliamo sì una casa “immersa nella natura”, ma a condizione che i muri siano in cemento, le porte blindate, le sbarre alle finestre, i condizionatori d’aria presenti in ogni stanza, e che ci siano zanzariere per tenere fuori “la natura”, mura e cancelli a isolare la nostra proprietà, erba ben tosata, alberi costantemente potati, riscaldamenti poderosi per garantire inverni estivi, e poi trappole, veleni e ammennicoli vari per debellare eventuali sgraditi “intrusi”, nonché detersivi per annichilire i batteri in ogni dove, ampi ricoveri per le nostre auto e comode strade asfaltate per spostarci velocemente. In questo senso siamo profondamente “amanti della natura”.

Allo stesso modo, accade che osserviamo attorno a noi infinite specie di animali, dai più piccoli insetti ai più grandi mammiferi, così come i mastodontici rettili che colonizzarono il pianeta in epoche ormai remote: non esiste alcuna di queste specie che utilizzasse come nutrimento qualcosa che non fosse presente in natura.

Cucinare significa trasformare qualcosa da come è in natura in qualcos’altro, cioè renderlo artificiale. Il paradosso sembra ovvio: come si può “snaturare naturalmente”? Ma la nostra cultura è talmente imbevuta di abitudini che perfino nei dizionari il verbo cucinare viene spiegato come “preparare e cuocere una vivanda[1]: ma se fosse una vivanda, cioè cibo, non andrebbe snaturato come presupposto per ingerirlo o assimilarlo. E – si badi bene – non si tratta di considerazioni di valore o disvalore: si potrebbe considerare buono ciò che è artificiale, e pessimo ciò che è naturale. Cionondimeno non si può non interrogarsi circa le motivazioni di un paradosso talmente diffuso da essere accettato quasi universalmente e incondizionatamente.

Tutte le volte che ci dovessimo interpellare su “cosa” siamo fatti per mangiare, e a prescindere dal numero di pubblicazioni scientifiche redatte o studiate, dovremmo tenere a mente perlomeno i precetti più elementari della logica, e rammentare che, se è vero che ci sono metodi per cucinare in modo meno invasivo (cioè determinante minori trasformazioni/ablazioni della materia prima), è pur vero che qualsiasi trasformazione chimico-fisica rappresenta per definizione la linea di confine tra “naturale” e “artificiale”.

Forse a questo punto ci si aspetterebbe una qualche sorta di rivelazione su quale sia il cibo naturale per la specie umana, ma lo scopo di questo articolo non è fornire quella risposta, bensì lo strumento per trovarla da sé, e che tutti possiedono: il buonsenso.


[1] http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/cucinare.shtml