UN’ETICHETTA CHE E’ LA FINE DEL MONDO

etichetta

Che cos’è un’etichetta? Il termine deriva da una parola tedesca, la cui radice significa “conficcare”: da ciò si è diffuso nel significato moderno, attraverso il riferimento all’affissione delle norme di comportamento del cerimoniale su cartelli.

C’è un’etichetta letterale, cioè un cartellino che si “conficca” sui prodotti, poi c’è quella in senso lato, che si ricollega al cerimoniale, e infine quella metaforica, che ci contraddistingue.

Quando si parla di “etichetta” mi viene sempre in mente Re Sole, che del cerimoniale ha fatto una vera e propria arte, tutt’altro che fine a se stessa: dopo aver trasferito la corte a Versailles, e così riunito presso di sé la nobiltà, ha imposto a tutti i cortigiani lo stile di vita che aveva prescelto.

Il cerimoniale è, per definizione, forma, cioè puro rito: quale utilità avrebbe dunque potuto avere per il suo governo un vacuo insieme di formalità e formalismi?

Dal risveglio al sonno tutto era cadenziato, in un susseguirsi di gratificazioni istituite ad arte, basate su bisogni altrettanto artificiali e indotti. Per vivere a corte e potersi permettere lo sfarzo imposto dall’etichetta – fra cui innumerevoli cambi d’abito, sfoggio di gioielli, ornamenti di pregio e proprietà prestigiose – i nobili erano costretti a indebitarsi con lo stesso sovrano, o perlomeno a dipendergli per ottenere titoli, premi e proprietà che gli consentissero di perpetuare lo stereotipo della vita di corte.

Il meccanismo è semplicissimo: una volta creato un bisogno che non c’era, ci si offre di soddisfarlo – o perlomeno di fornire i mezzi necessari a farlo – ed ecco che chi avrebbe potuto costituire una minaccia diviene uno strumento; per aumentare il controllo si spersonalizza ancora di più il gruppo, omologandone comportamenti e aspettative (cerimoniale, favore del sovrano) e il gioco è fatto!

Rammenta qualcosa? Come non vedere la somiglianza rispetto al moderno vestire, alla moda – con il suo annuale rito di creazione del bisogno -, alle automobili – un modello nuovo ogni 6 anni e un restyling ogni 3, ai cellulari – con nuove perline luccicanti ogni 6-12 mesi. Ma non che questo ai governi dispiaccia, anzi: se le case costassero come un anno di stipendio tutti potrebbero permettersele con modesti sacrifici e vivere spensieratamente. Se il cibo lo producessimo da soli e la casa ce l’avessimo, non servirebbe lavorare 30 anni per pagare il mutuo a una banca, o tutta la vita per pagare altri che realizzino sollecitazioni papillari artefatte poi definite “cibo”.

Quando si parla di diritto alla casa, per esempio, a nessuno viene in mente che ciò possa voler dire “diritto allo spazio vitale da cui trarre sistemazione e nutrimento”, ma sempre e solo diritto a indebitarsi tutta la vita per qualcosa da sentire proprio, ma che proprio non è, se non per illusione: lo è finchè paghi le rate del mutuo e non te lo pignorano, o finchè non lo rivendi o un terremoto lo distrugge, o un’alluvione lo travolge.

Insomma, ora come allora i bisogni sono creati ad arte e fondati sull’illusione: illusione di possedere qualcosa di cui si è soltanto momentanei detentori, di lavorare per rendersi liberi, mentre si è soltanto più dipendenti, di dover avere più oggetti per sentirsi più realizzati, etc.

Anche in questo caso la forma diventa sostanza, poiché dietro all’ennesima cianfrusaglia in più o all’ultimissimo modello di auto non c’è un miglioramento della vita, ma i presupposti per la sua distruzione: dal pianeta, afflitto dalla produzione industriale, alla coscienza, confinata entro schermi, tastiere e finestrini di una tecnologia che da strumento è stata elevata a fine.

Ma anche l’etichetta intesa quale definizione stereotipata concorre a rendere il presente ciò che è, con la solita illusione, in questo caso che esistano gruppi che in realtà non ci sono: noi siamo (saremmo) persone, ciascuna con propri pensieri e aspirazioni. Essere così crea problemi, poiché si è scarsamente predicibili e (quindi) controllabili: se a chi sta “in alto” fa comodo coltivare queste divisioni (“divide et impera”), a tutti noi serve mascherare la nostra paura attraverso l’adesione, ideale o concreta, a gruppi.

Sentirci isolati, diversi o soli è una delle più diffuse paure occidentali, basata come al solito sull’equivoco circa la vera realtà (per cui l’espressione “essere soli” non ha senso) e sull’assuefazione al quotidiano, che rende incapaci di porsi i famosi “dubbi esistenziali” cui fin da piccoli siamo naturalmente propensi.

C’è poi l’effetto “Esperimento carcerario di Stanford”: una volta che si considera la realtà distinta in gruppi, nasce il desiderio e poi il senso di appartenenza, da cui l’immedesimazione. Sì, perché nel momento in cui la persona cessa di esistere come individuo pensante e inizia ad agire come membro di un gruppo, automaticamente si sente contrapposta a tutti i gruppi differenti (o presunti tali), con il risultato di non agire più per autodeterminazione, ma per emulazione o per induzione, facendo ciò che ritiene rispecchiare le aspettative verso il suo gruppo o ruolo sociale.

La società annaspa e le tensioni crescono, come ogni volta che si arriva a un estremo: da un lato chi è sempre più vittima di un circolo vizioso, e dall’altro chi se ne allontana con maggiore determinazione. Ma intanto l’”etichetta”, cioè i bisogni artificiali che abbiamo istituito, oltre a divorare i suoi stessi creatori, sta divorando anche il pianeta: per questo è facile concludere che il cambiamento sarà inevitabile, soprattutto nel percorso di consapevolezza dell’uomo, che non potrà esimersi dall’affrontarlo in modo traumatico, se non si orienterà alla reale comprensione del tutto, a partire da se stesso.