LA (RI)SCOPERTA DI PLUTONE

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Correva l’anno 1997, quando concludevo gli studi superiori e mi accingevo a iscrivermi all’università. Benchè, parafrasando Kant, potessi dire che le mie uniche due certezze fossero il cielo stellato sopra di me e la repulsione per la matematica dentro di me, presi l’assurda decisione di iscrivermi alla facoltà di Ingegneria Aerospaziale.

Perché questa sorprendente decisione? “Per tutto il genere umano”! Così recitava la scritta sulle tute spaziali degli astronauti americani, e mi sembrava dannatamente vero: un pianeta così piccolo, di fronte alla vastità dell’universo, e noi qui a contenderci piccoli suoi appezzamenti, incapaci di concepirci come parte di qualcosa di più ampio. Qui, tante bandiere, tante lingue, tante religioni, troppo spesso adoperate come motivi di contrapposizione. Lì, un universo da esplorare, per comprendere le nostre origini, il nostro futuro, per scoprire gli altri universiani (no, non mi risulta che esista un termine per definire gli abitanti dell’universo, tanto il concetto ci è estraneo… quindi per analogia con “terrestri”, mi sembra di poter adoperare “universiani” per esprimere il senso).

Con infinita modestia ambivo ad essere il primo uomo a mettere piede su Marte, della cui missione in quegli anni si faceva un certo parlare, e sembrava potesse verificarsi addirittura già nel 2010: giusto il tempo per laurearmi e diventare un astronauta, insomma!

Con buona pace di Kant la mia seconda certezza si rivelò fondata, e il mio primo anno di Ingegneria Aerospaziale fu anche l’ultimo. D’altronde, nel frattempo, la missione umana su Marte è passata in secondo o ultimo piano, mentre gli sforzi occidentali e americani in particolare si sono focalizzati principalmente su questioni assai più terrene.

In quel periodo, i primi anni 2000, perfino la serie di Star Trek (Enterprise, in quel periodo) abbandonò la filosofia che l’aveva ispirata fin dagli anni ’60 e abbracciò una prospettiva neoimperialista e antiterrorista. Il saggio e prudente capitano-esploratore era divenuto un feroce e accanito vendicatore: sintomo ed espressione di una società che aveva perduto perfino il coraggio e la capacità di sognare un mondo migliore e che, dall’ambizione di abbracciare l’infinito, stava pericolosamente declinando verso l’abbandono a quegli stessi mostri che per un attimo era sembrata davvero essersi lasciati alle spalle.

Il viaggio nello spazio è sempre stato prima di tutto, o, almeno, così mi sembrava, un viaggio alla scoperta di se stessi, la riunione di tutti i popoli della Terra sotto un unico ideale, la dimostrazione che il senso di appartenenza è sempre troppo misero se non abbraccia “il tutto”. Messe da parte le contrapposizioni e conquistata l’armonia nella delicata biosfera terrestre, avremmo potuto dedicarci a conoscere e capire, esplorare, viaggiare, condividere.

Ma non è andata così: l’umanità ha perduto la sua “finestra di lancio” del 2010 per Marte, e non soltanto quella. Ormai perfino l’esplorazione spaziale è divenuta o sta per divenire un fatto commerciale, volto al profitto: dalle vacanze e dallo sfruttamento minerario della Luna, ai voli orbitali commerciali, alla colonia marziana stile “Grande fratello”, ormai anche i sogni di esplorazione sono scusa per vendere spazi pubblicitari o una nuova “terra dell’oro” per volenterosi pionieri in cerca di facili ricchezze, sempre più rare sulla nostra Terra cannibalizzata.

In questi giorni abbiamo rispolverato Plutone, ormai dal 2006 declassato a “pianeta nano” (qualunque cosa ciò voglia dire), ma pochi se ne sono accorti: notiziari troppo presi a offrire agli spettatori incalliti il loro sangue quotidiano, individui troppo presi a rivendicare diritti e rispetto, mercanti troppo disinteressati da ciò che non gli garantisce alcun ritorno commerciale.

Ecco, forse alla NASA manca qualche esperto di marketing: uno di quelli capaci di convincere qualche milione di persone dell’utilità di un mese di lavoro sottopagato pur di accaparrarsi l’ultimo aggeggio elettronico che deve sostituire quello comprato l’anno prima. Magari un evento ad hoc con diretta tv, streaming, e, ovviamente, condivisione su Facebook: miliardi di persone da ogni parte del mondo connesse all’unisono per assistere a quel momento storico, per vedere per la prima volta il volto di Plutone da vicino. E invece no. Plutone nessuno può venderlo (per adesso), e comunque non si connetterebbe a whatsapp, quindi… cui prodest? Meglio tenere la banda libera e il cervello in stand by per il primo hands on sul prossimo ultrafonino.

E in tutto questo paradosso che chiamiamo “società civilizzata” non può sfuggirmi l’ironia di stare qui a celebrare come una conquista storica il semplice avvicinamento a un grosso sasso sperduto nell’universo, che di fronte ai traguardi della conoscenza universale non rappresenta nemmeno una briciola. Intanto là fuori e qui dentro di noi universi interi aspettano di essere esplorati, ma le nostre “missioni” sono ben altre: alzare il PIL, diminuire lo spread, la moneta unica, i tassi di interesse, il posto fisso, l’auto nuova, la bandiera migliore.

Come potremmo spiccare il volo, se non siamo nemmeno più capaci di camminare?

E come potremmo non apparecchiare la tavola, imbandendola a festa, per consumare questa misera briciola a malapena conquistata, quando tutto ciò che c’è intorno è solo rumore di fondo?