ACQUA PUBBLICA, CIBO PRIVATO

Waterfall on the Hardanger Fjord

Negli ultimi anni si è molto discusso della possibilità di privatizzare l’acqua potabile. Il motivo? Economico (c’erano dubbi?).

Sulla questione sono stati spesi fiumi di parole, ma senza dubbio troppo poche sulle implicazioni filosofiche della vicenda: come al solito si è discusso dei pro e contro economici o logistici, di teorie economiche, di esempi pratici, di esperienze, di congetture, sono stati fatti o tentati lavaggi del cervello mediatici come nella migliore consuetudine degli ultimi decenni di esistenza dell’umanità, etc.

Vorrei affrontare la questione proponendo qualcosa di più, e di nuovo, rispetto a ciò che si è per lo più detto e sentito: risalire più a monte, e scendere più a valle.

Innanzi tutto, quando ci opponiamo alla privatizzazione dell’acqua stiamo parlando di un certo tipo in particolare, cioè quella che viene erogata nelle abitazioni e che normalmente è trattata per poter essere potabile al rubinetto. Un’acqua che spesso, a causa del sapore o dell’eccessivo contenuto di calcio, deve essere depurata o filtrata prima del consumo: la filtrazione, oltre ad arricchire i venditori di brocche e filtri, comporta anche la sottrazione di una parte delle sostanze minerali necessarie o perlomeno utili all’organismo. Certo, ci sono i filtri a osmosi inversa: quelli migliorano la qualità, con modica spesa (un migliaio di euro), ma sprecano esattamente la stessa quantità di acqua che si utilizza: se bevi 100 litri, paghi 200 litri e “getti” 100 litri. Osmosi inversa, appunto.

Acqua di rubinetto, di sicuro. Potabile? Insomma. Certo è che bere l’acqua del rubinetto di casa non è come abbeverarsi a una fonte di montagna. Ma tant’è. Insomma, non occorre un trattato di filosofia ontologica per rendersi conto che con il termine “acqua potabile” si indica qualcosa di più complesso di ciò che viene erogato dai rubinetti domestici. Da una parte c’è l’acqua di rubinetto, e, dall’altra parte, c’è quella che normalmente in occidente viene imbottigliata e venduta: la prima può provenire dal sottosuolo, dai fiumi o da sorgenti, mentre la seconda viene per lo più da queste ultime.

È a questo punto che pare mancare un passaggio fondamentale: se c’è chi imbottiglia e vende acqua prelevata in natura, allora è evidente che questa risorsa sia già (in parte) privata. C’è qualcosa che si forma in natura e che non viene utilizzato per necessità, da chi ne ha bisogno, bensì per arricchirsene, da chi ha deciso di farlo. Questo è un fatto talmente consolidato che, mentre tutti si affannano a redigere cartelli e striscioni contro l’acqua privata, nessuno è lì a rammentare che questa esiste da molto tempo. Ed eccoci al paradosso: protestiamo contro una forma di privatizzazione dell’acqua, ma ne diamo per scontata un’altra.

Le pubbliche amministrazioni normalmente si giustificano in vario modo nel privatizzare risorse collettive, ma la verità risiede sempre e invariabilmente nel profitto.

Nella California contemporanea, afflitta da 4 anni di siccità, la Nestlè continua a imbottigliare acqua di montagna, e afferma candidamente dalle pagine web del proprio sito che ciò non impatta minimamente popolazione umana né ecosistema, rappresentando soltanto il 10% del flusso alla base dei due canyon dove si trova la fonte[1].

Nel contempo, accade che in Oregon vogliano privatizzare la fonte di Cascade Locks, aprendo al commercio della stessa Nestlè, per finanziare la comunità locale in crisi economica[2]: con la disposizione di tali fonti non si decide soltanto dell’accesso alla preziosa risorsa da parte degli umani, ma si determina una sostanziale interferenza con gli ecosistemi (acquatici e non).

Non entrerò nel merito del perché sia sbagliato “privatizzare l’acqua”: non è scopo di questo blog occuparsi di questioni economiche o contabili, né, in generale, di attualità, bensì – semmai – di concetti universali. Sono i concetti di proprietà, di materialismo e di economia ad essere frutto di una società affetta da schizofrenia e che fagocita se stessa: concetti che, comunque, saranno sempre più messi in discussione mano a mano che i segni di disfacimento sociale diverranno più evidenti.

Dunque, dicevamo, acqua pubblica, ma non del tutto, eppure persone in piazza non per rendere (di nuovo) pubblica quella privatizzata, bensì soltanto per non privatizzarne altra. Che sarebbe come dire che se un serial killer uccidesse 10 persone all’anno, si dovrebbe scendere in piazza non affinchè le autorità pongano fine alla sua attività di assassino seriale, bensì per opporsi all’ipotesi che gli sia consentito uccidere 15 persone all’anno anziché 10.

È tutta una questione di abitudine: se ci si tramanda come normale qualcosa, cioè se vediamo che tutti attorno a noi la praticano, senza porsi particolari problemi, oppure se – addirittura – quelli che se li pongono vengono emarginati e screditati, si diviene a propria volta fautori di quella cosa, ignorandone la ragione. Noi tutti, pagando acqua imbottigliata e non opponendoci all’idea stessa che vi è sottesa, la avalliamo. È paradossale che, mentre promuoviamo l’acqua privata, invochiamo il diritto a che sia pubblica. Ma c’è dell’altro.

L’acqua – dicono i fautori dell’acqua pubblica – è una risorsa essenziale per la vita umana, e pertanto deve essere un bene comune. Chiaro. Semplice. Condivisibile. Schizofrenico.

Ai più non sarà sfuggito che – brethariani a parte – gli esseri umani hanno una curiosa necessità quotidiana chiamata “mangiare”. Ai più di cui sopra pare però essere sfuggito un dettaglio: da qualche tempo a questa parte il cittadino medio non soltanto non gode di alcun diritto al “cibo libero”, ma ha assai poche probabilità di potersi procacciare qualsiasi tipo di cibo, senza pagare qualcuno.

Viviamo in quella che possiamo considerare una società econocentrica [3], basata su ciò che ho definito come econocentrismo, cioè l’anteposizione dell’economia a tutti gli altri interessi. È per questo motivo che la nostra società non promuove i diritti realmente essenziali, come quello a nutrirsi e ad avere spazio vitale, ma promuove diritti “derivati” quali il lavoro e la salute: devi lavorare per pagare ciò che qualunque animale riceve dalla natura e hai diritto di pagare affinchè qualcuno (salvo rari casi) finga di sapere come curarti.

La maggior parte dei bisogni che il diritto e la politica si offrono (premurosamente) di soddisfare non sono bisogni reali, bensì indotti: che una casa sia in cemento armato o un condominio non è scritto nel nostro DNA. Neppure che la Coca-cola sia qualcosa da bere o un Big Mac qualcosa da mangiare trova alcuna giustificazione scientifica nella nostra fisiologia. In verità nulla che non sia frutta sarebbe – a rigore – cibo per l’essere umano. Ma se tutti mangiassimo frutta, come potrebbe McDonald’s spacciare per cibo un suo panino? O la Nestlè imbottigliare l’acqua e pretendere di vendercela (poiché mangiando sola frutta l’acqua si assume da lì)? E se non dovessimo pagare per mangiare, per bere, e per alloggiare, che ne sarebbe di tutte le sovrastrutture econocentriche? Chi le sosterrebbe?

Dall’acqua del rubinetto pubblica alla libertà di esistere il passo è breve, eppure talmente lungo che tutti scendono in piazza per protestare contro la privatizzazione dell’acqua di rubinetto, mentre pagano per il suolo che occupano, per l’acqua che ricevono, per il “cibo” che acquistano.

Non è una questione politica o economica, ma esistenziale: affrancarci da muratura, cemento e asfalto, da falsi cibi e false bevande è una questione di libertà e sta soltanto a noi scegliere se essere promotori del nostro stesso sfruttamento o artefici della nostra liberazione.


[1] http://www.nestle.com/aboutus/ask-nestle/answers/is-nestle-contributing-to-water-scarcity-in-california

[2] http://bark-out.org/project/nestle-water-bottling-proposal

[3] http://www.eusebismo.org/animali-umani/dallantropocentrismo-alleconocentrismo