PANEM ET CIRCENSES

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Il popolo, per essere sottomesso, deve avere la pancia piena e la mente distratta. Panem et circenses, appunto. Una delle principali critiche rivolte al mio pensiero è che sia utopistico, cioè che pretenda di orientare al cambiamento “tutto e subito” una società che non è ancora pronta.

A seconda del punto di vista dell’interlocutore, per esempio la società può non essere pronta per diventare vegetariana, oppure vegana, oppure ancora fruttariana. Parlando di rispetto, le persone – mi dicono spesso – stentano a rispettare i propri simili: figurarsi i dissimili!

In base a quanto sopra, persone e associazioni finiscono sistematicamente per applicare il principio del dire agli altri ciò che questi vogliono (o si presume vogliano) sentirsi dire, oppure – al massimo – ciò che si ritiene siano pronti a recepire.

Da un punto di vista morale questo atteggiamento è inammissibile, poiché si fonda su presunzioni del tutto arbitrarie e generiche e sottende una logica autoritaria enunciabile attraverso l’assioma: “Io ne so più degli altri, dunque ho diritto di scegliere per loro”.

Alcuni esempi: “Non puoi dire a chi si è sempre curato con le medicine di farlo con il cibo”, oppure “non puoi dire a chi segue una religione che sbaglia”, o “non puoi mostrare alla gente la violenza sugli animali”, o anche “non puoi dire a chi mangia carne di passare direttamente alla frutta”.

E così, anziché spiegare che i farmaci fanno più male che bene e che non affrontano le cause delle malattie, oppure che tutte le religioni sono sbagliate per definizione, oppure mostrare alle persone la violenza nascosta in un paio di scarpe in pelle o in una bistecca, o spiegare che l’essere umano è frugivoro, finiamo per convincere i nostri interlocutori di mezze verità, rassicurandoli invece di informarli correttamente.

Questo atteggiamento può dipendere o da una visione miope, ma in buona fede, o da una volontà di strumentalizzazione: nel primo caso occorre ampliare gli orizzonti, mentre nel secondo il problema è da ricercare ancora più a monte, e la soluzione non consiste nell’applicare una corretta logica, bensì nel mutare la prospettiva morale.

I primi, cioè i “miopi”, non agiscono pensando che le persone siano strumenti per i propri fini, ma considerandole semplicemente immature, impreparate o incapaci di farsi carico di tutta la verità, o della versione “dura e pura” di essa. Il paradigma, in questo caso, è: “Io so che occorre fare 100, ma penso che, poiché tu stai facendo 0, dirti di fare 100 non ti spingerebbe a fare 100 e nemmeno 50, bensì 0. Quindi ti dico che basta fare 50. Quando avrai fatto 50, ti spingerò a fare 100”. Si tratta di un ragionamento profondamente illogico, per diversi motivi:

1)    non è possibile essere nella testa dell’altro da sé e adottare criteri statistici non consente di tenere conto degli individui e del valore intrinseco di ciascuno,

2)    non è detto che il cambiamento intermedio sia utile,

3)   se anche il metodo funzionasse, sarebbe necessario uno sforzo doppio esattamente identico: prima portare da 0 a 50, poi da 50 a 100,

4)    l’adozione efficace di questo metodo implicherebbe una sistematicità impossibile da attuare, includente il monitoraggio costante del tasso di adesione al cambiamento, e la determinazione di un tasso soglia a partire dal quale avviare la “seconda fase”.

Insomma, un po’ come l’utopistico passaggio dal socialismo al comunismo, questa prospettazione si concentra talmente tanto sul presente e sul ritorno immediato, da rimettere alla pura fantasia il completamento del cambiamento che pure, a parole, si ripropone di attuare.

C’è, poi, da considerare che non è neppure detto che un obiettivo sia frazionabile. Prendiamo, per esempio, la questione “guerra” e immaginiamo come obiettivo la sua abolizione totale. Scegliamo la strategia dei “piccoli passi”, e, anziché dire che la guerra sia sbagliata “a prescindere”, diffondiamo campagne per attenuare gli effetti della guerra sulla popolazione civile, nonché per abolire l’uso di armi di distruzione di massa. In questo modo la guerra continuerà, e verrà inoltre considerata meno ignobile, più “civile”, quindi – tutto sommato – più legittima. Se, apparentemente, abbiamo ottenuto dei risultati “intermedi”, magari limitando gli effetti collaterali di alcuni conflitti, di fatto abbiamo agito contro il nostro stesso obiettivo, rendendolo ancora più difficile da raggiungere. Del resto quale governante non si sentirebbe a proprio agio a “vendere” al proprio popolo una guerra meno cruenta e meno “ingiusta”?

Veniamo alla seconda categoria, che potremmo definire degli “illuminati”, o, perlomeno, convinti di esserlo: questi non credono affatto che il cambiamento sia un fenomeno individuale, prima che sociale, ma ritengono di essere proprio loro, guide o capi, a dover prendere le decisioni corrette. Per queste persone tutti gli altri sono soltanto elettori, utenti, sostenitori, finanziatori: non teste pensanti, ma strumenti.

I fautori della politica dei “piccoli passi” per fini propagandistici compiono analisi di mercato e ammanniscono alle persone ciò che queste desiderano. Panem et circenses. “Tu sfamati e distraiti, che a governare ci pensiamo noi”. Ma queste sono vittorie impossibili, poiché nulla che sia contrario alla mentalità condivisa può essere imposto, e pertanto gli unici cambiamenti che possono essere affermati con il supporto “simbolico” delle persone sono anch’essi meramente simbolici, cioè di forma anziché di sostanza, oppure effimeri.

Prendiamo l’esempio del comunismo, che, a partire da una visione materialista dell’esistenza, si riproponeva di imporre una… limitazione al materialismo. Una concezione paradossale che muoveva dall’idea di poter estendere a intere nazioni (o al mondo intero) la prospettiva maturata da alcuni individui.

Purtroppo ancora oggi, anche nel mondo della associazioni, è assai diffusa la concezione dei “piccoli passi”, che dietro all’ideale di avvicinare tutti gli “avvicinabili” cela il fallimento di qualsiasi ideale e la deriva verso una logica mercantilista e capitalista che è tanto presuntuosa quanto fallimentare.

L’unico metodo per fare la differenza è professare la verità, per quanto essa sia atroce, scomoda, molesta, incredibile o difficile da manifestare: solo a quel punto ciascuno potrà essere reso libero di scegliere, di capire, di cambiare.

Chiunque voglia farsi promotore di un cambiamento dovrebbe accettare che questo, per essere duraturo, non può essere imposto, ma soltanto condiviso: obbligare gli altri ad adeguarsi, o decidere in loro vece, non è altro se non l’illusione di aver cambiato le cose, che, invece, sono andate così da sempre. Guide troppo sagge per doversi confrontare con le persone guidate.

Non esiste un cambiamento che possa avvenire “tutto e subito”, ma la politica dei “piccoli passi”, laddove ciò non si traduce semplicemente in una pianificazione logistica, bensì in un’operazione di filtraggio a monte, non porta a realizzare il cambiamento “gradualmente”: piuttosto allontana da esso. Chiunque non si senta pronto al “tutto e subito” troverà i suoi modi e i suoi tempi, che sono questioni squisitamente individuali e non massificabili: costui non ha bisogno di “saggi maestri” che gli elargiscono informazioni od obiettivi col contagocce, consentendogli di “illuminarsi” progressivamente, bensì di conoscere quanto più possibile per poter maturare il proprio percorso.

Non è importante che “tutti facciano qualcosa”, bensì che “tutti sappiano cosa va fatto”, e che siano liberi di decidere se, come e quando farlo.