MATRIX ESISTE E NOI CI SIAMO DENTRO

matrix

PREMESSE FISICHE E FILOSOFICHE

Lo sapevano gli antichi filosofi greci, mentre quelli contemporanei, supportati dalla fisica, lo stanno riscoprendo soltanto oggi: il mondo che vediamo è una simulazione, una sorta di enorme videogioco.

L’argomento non è nuovo e già Platone ne aveva fornito una rappresentazione simbolica di sconvolgente precisione attraverso il mito della caverna, definendo Iperuranio (al di là del cielo) l’universo reale e contrapponendolo a quello visibile (virtuale).

Recentemente il noto fisico Michio Kaku, a corollario delle sue ricerche sui tachioni, ha affermato di essere pervenuto alla conclusione che non esiste alcuna casualità nell’universo e che, per contro, esso è frutto di una intelligenza ordinatrice, che esiste su un piano dimensionale differente.

Il migliore indizio di quanto sopra l’ha fornito la teoria quantistica dell’entanglement, predicendo che due particelle appartenenti a un unico sistema si influenzino reciprocamente anche qualora fisicamente separate: ciò è stato convalidato attraverso l’osservazione diretta dal fisico francese Alain Aspect, che nel 1982 ha realizzato un dispositivo in grado di verificare la teoria.

In particolare i valori osservati in una particella sono uguali e opposti a quelli della sua controparte, a prescindere dalla distanza fisica che le divide e senza che vi sia ritardo nel verificarsi del fenomeno: ciò dimostra che la variabile spaziale è irrilevante, non potendosi dunque parlare neppure di “velocità”, ma semplicemente di sincronismo.

Una spiegazione di questo fenomeno è che la distanza non sia un fatto reale, ma soltanto una delle caratteristiche del mondo virtuale: in questo caso, non esistendo separazione reale, quella apparente non determinerebbe effetti.

Il fisico inglese David Bohm, rielaborando le informazioni ottenute da Aspect, aveva formulato la teoria dell’universo olografico, sostenendo che ciò in cui siamo immersi non sia la realtà “vera”, ma semplicemente una sua rappresentazione: in questo caso il comportamento delle particelle sarebbe identico a quello di un pesce nell’acquario ripreso da una telecamera frontale e da una laterale, che fornirebbero due immagini apparentemente diverse, ma di un unico “ente”.

Questo, insomma, sarebbe l’indizio dell’esistenza di una dimensione che trascende il visibile: un’anomalia non diversa da quella che permetteva agli abitanti bidimensionali di Flatland di comprendere essere in presenza di creature tridimensionali.

L’argomento sulla simulazione, sviluppato nel 2003 dal filosofo Nick Bostrom, si basa invece su un punto di vista principalmente matematico-statistico che prende in considerazione il livello tecnologico raggiungibile e l’evoluzione delle specie, affermando che le risorse di una civiltà postumana sarebbero ben al di là della nostra attuale comprensione, e largamente in grado di realizzare simulazioni come quella che consideriamo realtà.

Il cosmologo John Barrow ha osservato, in replica alle considerazioni di Bostrom, che sarebbe possibile accorgersi di vivere all’interno di una simulazione attraverso piccole imperfezioni, errori, o addirittura riscontrando il cambiamento improvviso di costanti fisiche, riconducibili a malfunzionamenti dell’elaboratore.

Queste considerazioni sono basate su elementi “indiziari”, ed essenzialmente su speculazioni intellettuali indimostrate o indimostrabili: in particolare il paragone tra un computer odierno e quello futuribile di una civiltà futura o differente mi sembra fuorviante, così come è limitante concepire la realtà simulata soltanto in connessione con uno strumento tecnologico di elaborazione dei dati.

 LIMITI ED ERRONEITA’

Il limite fondamentale della teoria di Bostrom è che egli concepisce l’essere umano come un personaggio limitato all’esistenza nella simulazione, distinguendolo di fatto dalla figura del creatore di quest’ultima.

Uno dei concetti più interessanti esposti nel film Matrix era la possibilità di modellare la simulazione a proprio piacimento, una volta acquisita la consapevolezza: la verità è, infatti, che noi siamo sia i creatori, che i giocatori, che i personaggi del videogioco che chiamiamo “vita”.

La domanda corretta non è se viviamo in una simulazione, ma per quale motivo.

A questo punto la prova indiziaria deve cedere il passo a quella “testimoniale”, e riporterò qui alcuni autori, ma molti altri ce ne sarebbero: mi riferisco agli studi maturati negli ultimi tre decenni e più da ricercatori quali Brian Weiss, Raymond Moody Jr. e Corrado Malanga: esperti di differenti discipline (i primi due psichiatri, il terzo docente di chimica) che ci hanno fornito con metodo sperimentale informazioni utili a sollevare quel velo di ignoranza che ci impediva di comprendere ciò che in realtà tutti portiamo dentro di noi.

Innanzi tutto è essenziale comprendere che le leggi fisiche di un universo, o di una simulazione, non possono essere adottate come valido riferimento per descrivere la natura o il funzionamento di altri universi, o di quello reale: in ciò si manifesta un altro dei principali errori di teorie come quella di Bostrom, che sottendono il mondo virtuale quale riproduzione – sia pur con varianti – di quello reale.

La tecnologia è uno dei tanti portati del mondo virtuale, o simulato, e sarebbe perciò fuorviante immaginare un mondo diverso, quello reale, caratterizzato da prerogative analoghe: anche in questo caso l’errore è dettato dall’incapacità di sottrarsi al punto di vista personale e acquisire una prospettiva oggettiva.

Nel mondo reale non esistono materia, spazio, né tempo, ma semplicemente coscienza indivisa: possiamo chiamarlo “Uno”, “Dio”, “Essere”, “Grande Spirito”, ma si tratterebbe soltanto di definizioni, alcune delle quali improprie, poiché sottendono una divisione che in realtà non esiste.

Ci è abbastanza chiaro che spazio e tempo non sono parametri assoluti neppure nel mondo virtuale e le testimonianze raccolte su vite passate e future dimostrano che non esiste una reale freccia del tempo, proprio come l’esperimento di Aspect ha suggerito non esistere neppure una reale separazione nello spazio.

Ciò che è deve essere sempre stato, oppure non sarà mai; allo stesso modo deve essere ovunque, altrimenti non sarebbe in alcun posto: ecco dunque che il mondo reale si caratterizza per l’assenza di divisioni nell’essere, nello spazio e nel tempo.

 L’ARGOMENTO DEL VIDEOGIOCO

È proprio la natura del mondo reale a permetterci di comprendere appieno il senso di quello virtuale, che potremmo paragonare a un videogioco: immaginiamo un adolescente che si trova in camera sua e assume il controllo di un supereroe all’interno di un gioco da computer, cui assiste attraverso uno schermo.

Nel nostro paragone, semplificando, osserviamo le seguenti identità:

1)     Adolescente = Essere

2)     Camera = Universo reale

3)     Supereroe = Corpo fisico

4)     Schermo = Universo virtuale

Come l’adolescente non diventa il supereroe, così l’essere non diventa il corpo fisico nel quale si localizza, che rimane semplicemente uno strumento necessario per interagire all’interno della simulazione, esattamente come lo è un personaggio all’interno del videogioco.

La camera, e più in generale tutto ciò che ci sta attorno, è il luogo reale dal quale origina e all’interno del quale si svolge anche la simulazione, mentre è evidente che se l’adolescente può vedere il videogioco dall’esterno, contestualizzandolo all’interno del monitor, così non è per il supereroe che si trova all’interno e le cui capacità di interazione sono necessariamente vincolate al gioco stesso.

Insomma, non esiste un Dio creatore sovraordinato, ma un essere unico del quale siamo tutti compartecipi e di cui siamo soltanto specificazioni occasionali: siamo gli artefici del videogioco così come i giocatori e i personaggi che lo popolano.

Se è vero che non esiste quel Dio superiore che ci ha collocati dove siamo e che muove i nostri fili, è altresì vero che il fatto di trovarsi in una simulazione non sminuisce il valore o gli effetti di ciò che facciamo, che, anzi, si ripercuotono senza limiti di spazio e di tempo nel mondo reale.

A questo punto forse è anche abbastanza scontata la risposta al quesito: “Perché creare un mondo virtuale?”, poiché chiunque abbia mai sperimentato un videogioco può comprendere perfettamente che le occasioni che offre esulano da quelle della realtà e consentono quindi di misurarsi con esperienze e situazioni differenti.

Se, per esempio, viviamo in tempo di pace, il gioco ci dà l’occasione di sperimentare una guerra, oppure, se viviamo al sicuro, potremmo desiderare di misurarci con una storia horror per provare brividi inusitati, e così via.

In generale l’Essere non conosce confini di spazio e di tempo, quindi l’aver realizzato un mondo virtuale contraddistinto da essi garantisce la possibilità di comprendere in primo luogo il divenire, la perdita, il distacco: proprio come nel videogioco mettiamo alla prova noi stessi, esplorando i nostri limiti, così facciamo anche nella realtà virtuale.

CONCLUSIONI

Te-me”, “noi-loro”, “prima-dopo”, “qui-lì” sono semplicemente rappresentazioni di comodo che abbiamo scelto di utilizzare per acquisire maggiore consapevolezza, ma proprio riconquistandola siamo in grado di ricordare la vera natura delle cose e realizzare che esse hanno un senso che trascende di gran lunga i risultati materiali: quelli, infatti, restano confinati nell’universo virtuale proprio come nel videogioco, a fine partita.

Il senso delle cose che ci circondano è esattamente quello che noi abbiamo inteso dar loro all’atto della creazione e pertanto sminuirlo equivale a sminuire noi stessi: possiamo dare nomi diversi a cose che nel mondo virtuale appaiono distinte, come “pianeta”, “sole”, “uomo”, “animale”, “albero”, etc., ma tutti sono manifestazione di un unico essere.

Va da sé che tutto ciò che accade non è frutto del caso, né della sfortuna o di divinità prepotenti, bensì semplicemente del libero arbitrio: le prove con cui ci misuriamo quotidianamente sono occasioni per evolvere nella consapevolezza, realizzando il nostro senso nell’Universo.

Uno dei passaggi essenziali nel percorso di consapevolezza consiste nell’emancipazione da tutti quegli idoli che impediscono di superare il pregiudizio, instillato dai dogmi di fede o di scienza che vietano, scherniscono o avversano tutto ciò che ignorano, o peggio ancora, che esula dai loro fini.